R.e.m.
Out Of Time
Che gruppo, i R.E.M. : partirono nei favolosi anni Ottanta da Athens, una semi-sconosciuta cittadina della Georgia, con uno spigoloso sound art-punk-rock e finirono per approdare in una dimensione dove le asperità rock si univano alle morbidezze folk. Negli anni della I.R.S. , la loro prima etichetta discografica, cambiarono la storia dell’alternative rock, con i testi impossibili e stralunati di Michael Stipe che si incastravano alle intuizioni chitarristiche di Peter Buck, depositando un lascito musicale che ebbe tanta influenza in seguito. Se ci riuscirono, è perché ebbero la possibilità e la capacità di crescere: mentre oggi assistiamo le band all’esordio vengono miracolate e osannate come “next big thing” per poi cadere nell’oblio, i R.E.M. arrivarono al successo planetario solo con il settimo album, proprio Out Of Time.
L’immagine della band a questo punto della carriera è quella di un collettivo organizzato e maturo musicalmente: la bilancia dei generi pende soprattutto sul country-folk, impreziosito da arrangiamenti orchestrali e venature rock, il tutto sviluppato con la tipica attitudine R.E.M. , ovvero con quella gradevolezza e meraviglia che solo le cose semplici possono avere. Premesse che non lascerebbero certo presagire un hit album; e invece il disco fece il botto, grazie alla famosissima Losing my religion. Una canzone a suo modo perfetta, con una innovativa linea melodica di mandolino che entra subito in testa; il grande successo del brano oscurò però molto del contenuto restante, e sarebbe un peccato dimenticare questi brani che mantengono ancora oggi invariato il loro stato di grazia.
In tutto il disco prevale un mood sereno e luminoso; il brano d’apertura è la divertente Radio song, che con una ritmica contagiosa e Stipe che si accanisce contro una stazione radio che non gli piace, riesce anche ad essere ballabile. Sensazione che non si ripete in seguito, dove la compattezza lascia lo spazio a un paesaggio sonoro evocativo e limpido, con i quattro che propongono un angelico incrocio tra i cori dei Beach Boys e la migliore tradizione folk. Da qui si aprono le due quasi-strumentali Endgame e Belong, paradisi musicali deliziosamente rallentati, sostenuti dal basso ritmico di Mike Mills mentre le chitarre disegnano dolci carezze su cui salgono cori armonici da far invidia ai Fleet Foxes. Stesso discorso per Half a world away, ancor più adagiata senza percussioni e con un organo che fa da contraltare alle chitarre agresti. Altrove invece la band accellera i ritmi e le suggestioni si uniscono alla velocità rock, evitando così che il disco si adagi eccessivamente.
Con esiti diversi, però: nei due brani cantati da Mike Mills, Near wild heaven e Texarkana, siamo ancora dalle parti di un’evocatività artigianale e fragrante, mentre quando il microfono torna a Michael Stipe la musica si fa più muscolare e comunicativa, insomma più diretta ma altrettanto espressiva: come in Shiny happy people (anche questo singolo di successo) che, pur non rinunciando agli intermezzi orchestrali che si inseriscono per due volte nella canzone, ha tutte le caratteristiche della buona rock song.
Così il disco scorre via in uno splendido equilibrio, che allo stesso tempo calma ed estasia i sensi. Con in più la presenza di due perle: Low, che emerge dal disco per la sua atmosfera cupa e si dipana tra un organo ossessivo e le discrete percussioni dalle movenze tribali, con il cantato fosco di Stipe che a tratti rasenta lo spoken word; e Country feedback, bellissima e struggente ballata con le chitarre malinconiche e appena effettate a rafforzare la voce, quasi dolorosa quando sale cantando “It’s crazy what you couldn’t have / I need this” (tradotto liberamente, “è da pazzi se pensi a ciò che non hai potuto avere / eppure non posso farne a meno”). Tutto meraviglioso e cristallino, magicamente fuori dal tempo. Out of time, appunto.
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