The Gathering
How to Measure a Planet?
Nel 1998, anno cardine a livello di ispirazione musicale, capita che una band olandese da sempre inserita nelle liste del Progressive, anche se più incline ad un gothic-rock, vagamente di tendenza medievaleggente, esce sul mercato discografico con un doppio CD, che la sdogana in un attimo dalle produzioni di sottobosco.
I The Gathering (concepiti dai fratelli Hans e René Rutten, rispettivamente batteria e chitarra) compiono un salto di qualità immenso, dimostrando la capacità di mutare il proprio DNA verso una prospettiva moderna e raggiungendo al massimo l’espressione delle proprie abilità creative. How to measure a planet? è un album che nulla vuole lasciare di non-detto: l’elettronica si fonde con le impostazioni grezze di batteria e chitarra, che quasi mai si ritrova a filare delicati arpeggi. Le tastiere si dipanano con la sola funzione di collante e rifiniscono ogni singolo passaggio.
Un lavoro che pur essendo nato in terreni molto diversi da quelli seminati dai Massive Attack (di Mezzanine, sempre 1998), produce spesso frutti di anologo sapore. I The Gathering non hanno fretta e per raggiungere il proprio obiettivo sentono la necessità di avere a disposizione tempo e spazio, per cui la scelta dei due dischetti è quasi un percorso obbligato. La voce di Anneke Van Giersbergen si erge al ruolo di traghettatrice per condurre l’ascoltatore, attimo dopo attimo, sempre più dentro le suadenti asperità dell’album. Nonostante l’opera di aggiornamento del suono, How to measure a planet? davvero poco concede alla facile fruibilità. Il disco pur avendo una sua fluidità, spesso nel suo scorrere, incontra rocce taglienti e appuntite, che l’acqua non è riuscita a levigare.
Unica ancora di salvezza appunto, la delicata e potente vocalist Anneke, capace di fascinose suadenze ma anche di travolgenti rivelazioni delle proprie estensioni vocali. Una voce che fa venire in mente una bambina dai lineamenti dolci e dalla pelle morbida ma che si ritrova a giocare, con macchinari molto più grandi di lei: macine e anelli dentati, cingoli e catene. Un gioco che, quasi metafisicamente, riesce a dirigire alla pefezione. L’andamento del lavoro è abbastanza uniforme, imperniato com'è su ritmi abbastanza rallentati (ma per nulla rilassanti), senza mai cadere vittima di inutili esasperazioni e frenesie. Brani intensissimi come Great ocean road (caposaldo del disco), My electricity e la fantastica ed eterea cavalcata (nove minuti...) di Travel, posta in chiusura del CD numero uno, conquistano sin dal primo ascolto. L’effetto fascinazione è infatti altissimo.
Nel secondo dischetto a farla da padrona ci sono sicuramente brani come lo strumentale posto in apertura (South american ghost ride), Illuminating e Probably built in the Fifties che, in un unico ascolto, palesa l’intera essenza di questo disco. Uno spirito-voce guida che infonde energia e una graffiante, malevola e prepotente chitarra che corre sempre a sfidarlo, quasi una battaglia che, senza ammettere vincitori o vinti, sublima la ricerca degli opposti. E rende questo disco un piccolo capolavoro, che purtroppo forse non troverà mai spazio nelle classifiche “ufficiali” dei dischi di tutti i tempi.
Certo è difficile da credere che l'avventura di Anneke con i The Gathering si sia interrotta un brutto giorno nel 2007 (anche in vista di una carriera solista non ricca di frutti altrettanto saporiti). Ma questo non può far altro che incrementare l'importanza di questo album che, salvo reunion, continuerà a rappresentare la summa di un percorso artistico.
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