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R Recensione

7/10

White Willow

Terminal Twilight

Può un gruppo con i natali risalenti a quel momento in cui, all'incipit degli anni '90, il progressive rock si disfaceva delle rotondità degli eighties rigettandosi a capofitto nell'ispirazione di venti anni prima, trovare oggi una identità nuova per comunicare in modo credibile al nostro tempo, nel nostro tempo? In breve, può una formazione nata con una vocazione per il passato, accettare il presente, tornando al futuro?

 

Una formazione qualsiasi non saprei dirlo: i White Willow a quanto pare sì. La band norvegese ha saputo tramutare quel rigurgito ruggente che all'epoca vide come alfieri Anglagard, Anekdoten e Landberk in qualcosa di più personale e in grado di incorporare inquietudini trip-hop, post-metal, electronic-pop alla Björk, intimismi ambient-folk, senza far venire meno la propensione a ricorrere a densissime architetture concepite con l'uso di tastiere analogiche (e non) e di liquide chitarre (fra Andrew Latimer, Steve Hackett e David Gilmour), senza mai abiurare la causa di quel "Gothic Progressive" che li vide protagonisti, anche se non fra quelli della primissima ora (il loro esordio ufficiale, "Ignis Fatuus”, è del 1995). Gli esiti sembrano senz'altro migliori qui rispetto all'ultimo lavoro dei Paatos, altro gruppo legato a doppio filo allo stesso humus dei White Willow, essendo sorto dalle ceneri dei Landberk. Oltre ai due ideologi Lars Fredrik Frøislie (autentico keyboard-wizard) e Jacob Holm-Lupo (maestro di chitarre), nella line-up confluiscono in pianta stabile la vocalist Sylvia “Erichsen” Skjellestad (qualcosa di transgenico fra Martina Topley-Bird e Annie Haslam), Ellen Andrea Wang al basso, Ketil Einarsen al flauto (noto per aver a lungo lavorato con i Jaga Jazzist e i Motorpsycho) e, principalmente, ritorna Mattias Olsson, il grande batterista degli Anglagard (che era già con i White Willow nei loro primi due album).

 

Terminal Twilight” rompe un silenzio durato sei anni e "Red Leaves" si caratterizza subito come uno dei manifesti sonori di questo nuovo corso della band: l'inizio sin troppo dolciastro si tinge di forti tinte prog con le tastiere in grande spolvero, procedendo dapprima verso lidi più inquieti e crepuscolari ed infine aprendosi a quella magniloquenza a cui il genere di riferimento induce. Si rinvengono ancora una volta tutti i pregi e i difetti di queste latitudini della musica. I Renaissance della già citata Annie Haslam sembrano porsi per i White Willow come la stella polare per i navigatori: indicano una direzione precisa, aperta a molte altre divagazioni. Ed è così che nella prosecuzione di questo viaggio, fatto di ottime intuizioni e di alcune derive, arriva il grande masterpiece di "Floor 67", capace di palesare una personalità non solo debitrice della grande era dei seventies inglesi, ma anche incline a suggestioni meno datate. E a conferma di ciò segue "Natasha Of The Burning Woods", uno strumentale di grande impatto emotivo, generato da un innesto fra gli Anathema più recenti e i God Is An Astronaut. Soffusa ma avvincente l'ipotesi di cantautorato autunnale inaugurata da "Kansas Regrets" cantata da Tim Bowness dei No-man, che qui riversa tutta la sua sensibilità di decadentismo sylvianico.

 

Lucida e vivida anche la visione offerta dall'excursus (tredici minuti...) di "Searise", in cui però lo sguardo torna ad essere prepotentemente rivolto a quanto accaduto quarant'anni fa in terra d'Albione (ancora Renaissance, ma anche i King Crimson dell'esordio, Genesis e Camel): bisogna tener conto che i White Willow sono nati in quel particolare contesto nord-europeo nel quale si è creduto possibile ridare lustro ad un movimento che nel corso degli anni '80 si era completamente scolorito, trovandosi a scendere a patti con i saldi di fine stagione, sbandierando la tendenza ad affidarsi a moderni synth e a melodie più ammiccanti, cedendo infine ad una impostazione che di autenticamente progressivo non aveva più nulla. Per far ciò, per sollevarsi al di sopra del cumulo di macerie, bisognava proporsi come degli integralisti ed esaltare quanto prodotto non oltre il 1974, abbeverandosi alle fonti e accreditandole come sacre. Gli Anglagard si sciolsero dopo due album; gli Anekdoten hanno continuato ad esistere trovando per fortuna una sintesi espressiva non più debitrice delle sole fonti arcaiche ma incorporando in sé, elementi di new-wave, post-rock e la lezione dei Radiohead. I Landberk, ormai sciolti da quasi quindici anni, si sono congedati dal mondo musicale con l'opera più alta e seminale mai concepita in territorio post-progressive. I White Willow sono sopravvissuti grazie a dischi dal valore alterno. Certo anche oggi, in questo 2011, viviamo qualcosa di simile ad un decennio fa con formazioni e artisti che ricevono quasi ovunque critiche positive per la riscoperta delle "radici prog dell'Europa" (Opeth,Steven Wilson, Mars Volta…), mentre anche questa storia di revival senza compromessi è una storia già raccontata e sepolta, ancora una volta, appena una decade orsono...

 

I White Willow sono tornati forse per riappropriarsi di meriti che altri sfoggiano, anche se oggi il loro prog è molto più ibrido di come lo era una volta.

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Utente non più registrato alle 14:21 del 23 aprile 2012 ha scritto:

I primi due Ignis Fatuus e Ex Tenebris (acquistati all'epoca, insieme a tutti gli altri gruppi dell'ondata prog made in Svezia) ricordo di averli graditi parecchio, anche se avevano un approccio più "intimista" rispetto ai loro colleghi. Li avevo persi un pò di vista, questo non l'ho ancora mai sentito, ma mi riprometto di farlo al più presto.