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R Recensione

7/10

Post Harbor

They Can’t Hurt You If You Don’t Believe In Them

Certo il prefisso del nome non lascia molto spazio all’immaginazione nel tentativo di indovinare il genere che la formazione di Seattle ha prescelto per provare ad esprimere il proprio punto di vista in musica. E certamente una volta scoperte le carte, subito così anche prima di iniziare il gioco, molti di quelli che si apprestano a leggere la recensione avranno magari già storto il muso, annoiati già dal solo riferimento oppure semplicemente, in un moto di presagio, indisponibili a dare una chance all’ennesima formazione che prova a dire la sua attraverso una modalità espressiva che ha prodotto sin troppi cloni. Io sono tra quelli che hanno amato profondamente il post-rock fino ad una decina di anni fa e che poi hanno dovuto ammettere il superamento di ogni legittimo limite di ridondanza, indotto dalle innumerevoli repliche di quanto, al meglio, era stato espresso in precedenza. Ma in fin dei conti non è così per ogni genere musicale?

Comunque nonostante tutte le mie remore, nonostante tutto, talvolta tendo a cedere agli insistenti consigli degli amici ancora completamente invischiati nel post-rock, segno che probabilmente, anche in maniera incosciente, questa idea, questo ideale illusorio, di musica “altra” ha radicato profondamente in me. E con questo spirito mi sono accostato anche a questi statunitensi che, avendo dalla loro una ottima perizia strumentale e un raro tocco estetico, hanno saputo confezionare delle sinfonie emozionali di notevole impatto e non così prevedibili come sarebbe lecito aspettarsi: le strutture, le ritmiche, le reiterazioni, gli stacchi, le dilatazioni, le accelerazioni sono quelle che ci hanno abituato alcuni tra i nomi sacri (o meno) della “colonna classica” come Mogwai, Sigur Ros, Explosions In The Sky, Russian Circles, Caspian, Do Make Say Think, Red Sparowes, This Will Destroy You (i GY!BE non si possono tirare in ballo: il loro è un terreno imperivio, fatto di lunghissime distanze, sul quale molti altri ci si sono giocati la credibilità... e per fortuna i Post Harbor non ci pensano neppure).

Però ancora una volta, qualcosa dal sapore inedito e indefinibile riesce ad emergere, motivando l’indugiare ancora su questi lidi prima di abbandonarli. Era già successo con gli svizzeri The Evpatoria Report (che però di personalità ne hanno da vendere, o meglio ne avevano visto che si sono sciolti), e ora si ripete con i Post Harbor: si trova sempre una scusa per rimandare la partenza da queste suggestioni. Cities Of The Interior, Alia’s Fane, Agustine o l’immane With A Line Graph I Can Tell The Future contengono ed esalano un respiro, sottolineato dal suono del violoncello, nel quale è bello ancora una volta perdersi. Anche le evanescenze evocate dal cantato sono talmente cristalline e nel posto giusto da far rifuggire, alla fine inutili, ricerche di parallelismi: Caves, Hollo Tree and Other Dwellings la dice lunga in tal senso.

In definitiva “They Can’t Hurt You If You Don’t Believe In Them” continua la saga di quei lavori che costituiscono l’ideale colonna sonora di un tramonto senza fine (metafora di un genere), della morte di un sole che ha perso quell’intensa brillantezza ma che, nel continuo ritardare il suo ultimo bagliore, sa regalare colori di inesplicabile fascinazione.

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