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R Recensione

8/10

Mogwai

Happy Songs For Happy People

Musica afferrata a metà fra intime distanze e lontani abissi celesti. Un pulcino di gabbiano sospeso fra il caldo rassicurante del nido e il freddo precipizio delle scogliere, verso il quale pure prova una attrazione irrefrenabile. Così è il quarto disco dei Mogwai: intensamente concepito sopra un margine.

Superati gli scossoni del rock elettronico del precedente opus in studio (“Rock Action” del 2001), la band scozzese si prende il tempo per metabolizzare le sue tante anime e realizza l’album più meditato e meditabondo della sua ancor breve carriera: tutto costruito sul fluire compatto di composizioni rigorosamente strumentali, “Happy Songs For Happy People” si presenta ai nostri sensi come una carezza (pur se a volte irruenta), più che come un graffio. La sua musica, integralmente tesa a cullare, piuttosto che ridestarci bruscamente, ci consegna a un sogno carico di eccitazione e di sussulti emotivi. Tutto è elaborato come una “amalgama complessiva” che non abbandona mai (o quasi) la sua via di unione a favore dell’esaltazione di un singolo strumento. Ed è qui che la somiglianza iniziale con “Rock Action” si interrompe, facendo posto a quella che è la vera sostanza di “Happy Songs For Happy People”: l’equilibrio. L’armoniosa consonanza degli strumentisti, realizzata attraverso una lunga fase compositiva.

Già l’iniziale “Haunted By A Freak” porta in sé tutte le caratteristiche proprie dell’album (inaugurando un irresistibile canto vocoderizzato), configurandosi come perfetta dichiarazione di intenti per il “nuovo” suono dei Mogwai. Oggi sappiamo che dal vivo è diventato un passaggio essenziale e un valico al di là del quale il concerto decolla definitivamente. “Moses? I Amn’t” sembra fare eco a certi strumentali gabrielliani provenienti da colonne sonore come “Birdy” o “Passion”. Segue questa scia anche “Kids Will Be Skeleton”, quasi una immersione in un ipotetico folk post rock (o post folk?), che richiama le bellezze agresti della natia Scozia, ma allo stesso tempo non suscita sentimentalismi bucolici. La sezione d’archi che accompagna la tenue “Killing All The Flies” deve vedersela con un synth che emula la voce umana e che fa strada, finalmente, all’afflusso di potenti chitarre elettrificate, che nel finale sanno farsi piccole piccole, tanto da ritagliare delicati arpeggi.

L’apoteosi dell’attuale essenza sonora dei Mogwai si dischiude in tutta la sua bellezza negli otto minuti di “Ratts Of The Capital”: reiterazioni, sospensioni, riprese e aperture. “Golden Porsche” mantiene altissimo il livello con un dialogo disteso ma quasi commovente fra violoncello, piano e chitarre. I battiti di “I Know You Are But What Am I?” accentuano il senso di attesa, rendendo questa fase di ristagno emotivo quasi sublime (altra memoria live marchiata a fuoco nell'animo: il teatro romano di Ostia Antica avvolto dalla pesante nebbia, trasudante umidità e aria marina, le luci disperse in questa vaghezza: era il 7 settembre del 2006 e “lei” era “I Know You Are But What Am I?”... fermo-immagine di un sogno). Fino alla liberatoria conclusione di “Stop Coming To My Home”, dove il gabbiano dell’inizio inizia a provare la gioia del volo verso lo strapiombo, sorretto da correnti ascensionali amiche (nel nostro caso un possente vento di chitarre), fino poi a perdersi nell’orizzonte. Ritengo che “Happy Songs For Happy People” non possa essere definito un capolavoro, principalmente perché, così poco teso al virtuosismo come è (tutto è architettato per sottrazione, per asciuttezza), concorre a creare uno stato di dislocazione del suo fascino, privandolo di momenti particolarmente topici, di cui di solito necessita un disco “masterpiece”. 

Ogni brano non aspira ad una esasperazione degli sviluppi ma in genere si richiude dopo aver raggiunto il suo equilibrio interno. Ed è per questo che tendo a considerare l’album, più che altro, come una collezione di gemme, a volte piccole, a volte grandi. E' un album che si propone come una sinfonia a volte (rare volte) magniloquente, a volte minima, minimale. 

I Mogwai diventano qui delle entità evanescenti: viene frustrata ogni celebrazione dei solisti. Non credo si tratti di un caso se, in questo quarto lavoro, i musicisti preferiscano l’anonimato assoluto all’interno dello scarno booklet; in questo l’unica cosa degna di risalto è il nome della band incastonato su un luccicante sfondo argenteo. Gli epigoni dei Mogwai ormai non si contano più: l’unica certezza è che gli “originali” continuano (magari facendo due passi in avanti e uno indietro) ad avere un talento solo in parte imitabile. E questa è una certezza che scaturisce persino nell’album più in congiunzione astrale con i “rivali” Sigur Rós.

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Voto degli utenti: 8,1/10 in media su 9 voti.
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Teo 8/10
babaz 8/10

C Commenti

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babaz (ha votato 8 questo disco) alle 11:42 del 18 febbraio 2010 ha scritto:

Bel disco...non il loro capolavoro ovviamente, ma molto bello!!

daniele.synesthesia (ha votato 10 questo disco) alle 10:02 del 19 febbraio 2010 ha scritto:

Capolavoro

Ogni disco dei Mogwai è un gioiello ma HSFHP a mio giudizio è un capolavoro invincibile al tempo.

fabfabfab (ha votato 7 questo disco) alle 10:33 del 19 febbraio 2010 ha scritto:

Anche secondo me i loro capolavori sono i primi due, ma i Mogwai sono veramente un grande gruppo e "Ratts Of The Capital" è un pezzone.

daniele.synesthesia (ha votato 10 questo disco) alle 10:42 del 19 febbraio 2010 ha scritto:

YES!

Metanoia70 (ha votato 8 questo disco) alle 19:06 del 25 febbraio 2010 ha scritto:

Maturo

Happy songs for happy people, ovvero sconsigliato a tutti i neo-melodici, a chi ricerca emozioni superficiali e passeggere, le quali infatuano e stordiscono, lasciando vuoti e falsamente spensierati. Happy songs for happy people è consigliatissimo a tutti coloro che sono disposti a a viaggiare tra le pareti oscure ed enigmatiche delle emozioni, dove i toni chiaroscurali sono prevalenti, dove è interdetta la stabilità di un unico stato d’animo e dove, comunque, non si è in balia del caso (destino?) perché il principio e la fine (“Hunted by a freak” e “Stop coming to my house”), con la loro luminosità e pacatezza (Hunted..) e con la loro rottura liberatoria (Stop coming) tracciano un itinerario di liberazione. Nel mezzo assistiamo al sovrapporsi di luci e ombre, di attraversamenti di paesaggi spigolosi e ruvidi (per es., Ratts of the capital, I Know You Are but What Am I?) e di paseggi solari, onirici (vd. Kids will be skeletons, Boring Machine, Golden porsche) o lievemente ombrosi (Moses I’m not), ma anche improvvisamente tempestosi (Killing all the flies). Alla fine del viaggio, uno avverte in sé - questo, almeno, è quanto ho provato io – non tanto il tumulto interiore, quanto piuttosto un prevalente senso di pacatezza e di liberazione, a patto che si decida di attraversare i meandri più o meno oscuri delle proprie emozioni.

hiperwlt (ha votato 8 questo disco) alle 19:54 del 19 marzo 2010 ha scritto:

non è certo il mio preferito dei mogwai (i capolavori "young team" e "mr beast" su tutti), ma non lo reputo un lavoro minore (quale è "rock action", a par mio). tralasciando il considerare fattori puramente tecnici od estetici, questo disco ha per me ben più valore di una teca in avorio; cosa, questa, che mi porta a maneggiare "happy songs..." davvero con cura e ad ascoltarlo col contagocce. qui i mogwai sono laceranti ("stop coming to my house"), suadenti e strazianti insieme ("golden porsche"; "i know you...")contemplativi("kids well be skeletons",impeccabilmente tradizionali ("ratts of capital"). 8 . grande stefano!