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R Recensione

7/10

Anathema

Weather Systems

Ad “appena” due anni di distanza dall’ultimo “We’re Here Because We’re Here” (che seguiva, dopo una lunga attesa, l’importante “A Natural Disaster” del 2003), la formazione inglese sembra non aver voluto perdere tempo, continuando a cavalcare il momento di ispirazione che è coinciso con il passaggio alla Kscope Records. Il materiale rimasto da parte durante le sessions del precedente lavoro si è fuso a quello scritto durante il tour che li ha visti girovagare un po’ ovunque nel mondo: stavolta il complesso di Vincent  e Daniel Cavanagh non porta in scena alcun cambiamento di direzione artistica e “Weather Systems” è il perfetto follow-up di “We’re Here Because We’re Here”, passando per il sinfonico processo rigenerativo messo in atto con “Falling Deeper” (ossia l’album dello scorso anno in cui il gruppo ha rivisitato, in chiave semi-orchestrale, alcuni brani cardinali del repertorio dei primi anni della loro carriera): quello che immediatamente colpisce è la carica emozionale di cui i nuovi pezzi sono ammantati, una sorta di struggente pathos melodico che si rivela attraverso elaborate amalgame vocali di grande suggestione, un uso maggiormente carismatico della chitarra acustica ed del piano ed innesti d’archi che donano spazialità e drammaticità, specialmente nella transizione scenografica fra luce ed ombra, fra calore vitale e freddo crepuscolare.

Untouchable (in particolare nella seconda parte), posta non casualmente ad inizio di “Weather Systems”, costituisce il manifesto di ciò che verrà più approfonditamente messo a fuoco nel dipanarsi della trama “narrativa” dell’album (quasi ogni traccia evolve dall’altra senza interruzioni, mentre le liriche indagano sulle contraddittorie condizioni meteorologiche dell’animo umano). L’obiettivo centrale degli Anathema resta quello di creare melodie dal forte impatto e successivamente di arricchirle sollevandole con una architettura compositiva tale da renderle ariose laddove necessario – fondamentale l’uso evocativo delle voci – e allo stesso tempo sapendo tendere la corda emozionale al momento opportuno, utilizzando soluzioni strumentali articolate. L’intro Morriconiano di The Gathering Of The Clouds si fonde con una struttura sinfonica certamente pesante, ma capace di non affossare il senso del brano, anzi lasciandolo vivere dell’emotività che è sorgente della sua origine: Lightning Song scaturisce per processo di filiazione, senza discontinuità nell’intensità, e la voce della damigella Lee Douglas (da qualche anno parte integrante della band: impossibile dimenticarla come voce guida della stupenda title-track di “A Natural Disaster”), concorre a donarle la leggiadria di una foglia sospinta da un lieve vento autunnale. Giunge Sunlight con tutto il suo poetico scrutare dell’orizzonte, ed in un certo senso siamo a metà del guado, alla chiusura del primo atto di “Weather Systems”: fino ad ora tutta la propulsione strumentale è risultata tesa verso la luminosità e le liriche protese verso l’estroversione di sentimenti aperti alla fiducia. Con l’oscuro fascino di The Storm Before The Calm si apre il secondo atto: i panorami si fanno più inquieti e le certezze, le speranze diventano chimere, minacciate come sono da ombre e da previsioni meteorologiche che promettono tempo instabile. Tutto ciò giunge con il brano che converge verso il vertice creativo degli Anathema. The Storm Before The Calm è costituito da due movimenti susseguenti: ad una ipnotica prima parte (sembra richiamarsi a Get Off, Get Out su “We’re Here Because We’re Here”), subentra una seconda metà in cui l’andamento si fa più dilatato e solcato da ispirazioni floydiane. Quasi dieci minuti di autentica discesa nei meandri bui dell’anima. The Beginning And The End, scandita dal pianoforte, ha un cuore profondamente rock che forse una quindicina di anni fa gli Anathema avrebbero sviluppato in modalità drasticamente differente, giocandosi tutto sul roboare delle chitarre: qui ci si rende conto di quanto la formazione sia cambiata, rimettendo in netta discussione la posizione nella quale si cela il significato ultimo delle loro composizioni (un cammino sotto diversi aspetti analogo a quello realizzato dagli olandesi The Gathering). The Lost Child è un altro dei brani fondamentali di “Weather Systems”, imperniato su una melodia in cui prevale il piano che cerca di descrivere il doloroso senso di abbandono che si prova quando i sogni d’infanzia sembrano svanire nella luce che muore, in qualche posto in fondo al mare, in cui non è più possibile andare: un grido d’aiuto toccante compiutamente interpretato dalla cupa enfasi del crescendo che l’abbraccia completamente. Il tentativo estremo di rasserenamento a cui la conclusiva Internal Landscapes vuole condurre, inizia con la narrazione di una “near-death experience”, a cui fa seguito uno tra i più intensi quadri sonori degli Anathema, non distante da quanto già fatto con Hindsight in chiusura del precedente opus.

Non nego che spesso la mente è tornata agli esperimenti, non unanimemente apprezzati, dei Metallica con l’orchestra (il live “S&M”): ma nel caso degli Anathema il confronto si pone semplicemente in rapporto ai loro esordi gothic-metal e al loro attuale approccio moderatamente sinfonico. Intensità, emotività, struggimento, enfasi: questi i termini più ricorrenti in questa disamina sul nuovo album in studio. In termini di espansione verso soluzioni inedite, non riesco ad individuare in esso e nell’attuale percorso sonoro dei fratelli Cavanagh, dei nuovi traguardi raggiunti: ritengo che “We’re Here Because We’re Here” (che in questi due anni è stato uno dei miei ascolti più ricorrenti, sebbene siano altri i capitoli che più amo della loro esperienza discografica) e “Weather Systems” – sapientemente costruito sui contrasti – debbano essere considerati come due lavori con stretti legami di sangue fra loro, figli di una medesima ispirazione, di una stessa visione della musica. E ciò sebbene i musicisti coinvolti siano anche mutati, trasformando in un collettivo aperto lo “statuto sociale” degli Anathema: Wetle Holte e John Douglas (presente nella line-up dal 1990 al 1997 e poi dal 1998 fino ad oggi) a dividersi le mansioni dietro le pelli, il produttore e sound-engineer Christer-André Cederberg – piuttosto celebre in madre patria Norvegia – a calarsi nel ruolo di bassista (al posto di Jamie Cavanagh), Daniel Cavanagh, vero centro creativo della band e magistrale chitarrista, a farsi carico di tastiere e pianoforte, svolgendo interamente i compiti del dimissionario Les Smith.   Sicuramente gli Anathema scrivono la loro storia all’interno di due differenti tradizioni, quella metal e quella progressive, senza minimamente avvicinarsi ad alcuno degli stereotipi partoriti dai due generi o dalla quella pseudo-sintesi offerta dal metal-prog, spostando piuttosto l’accento verso intuizioni affini all’alternative-rock. In un certo senso gli Anathema hanno proceduto per astrazione, sapendo vivere nel loro tempo con una musica densa, stratificata, che anziché cercare l’espediente del virtuosismo o dell’estensione dei brani con sezioni che poco sono connaturate alla sostanza melodica, riesce ad esprimere la propria sensibilità cercando da una parte l’esaltazione dei temi melodici, dall’altra l’inserimento di tali temi in contesti elaborati, talvolta fondati su minimalismi, talvolta su massimalismi. Con una più spiccata predilezione per questi ultimi, almeno nell’album fresco di stampa.

Le previsioni del tempo dell’anima restano materia assai incerta. Quello che è certo è che, seppure il combo inglese si tenga lontano da più avventurose ricerche sperimentali, gli esiti del loro scandagliare – dei fondali celesti come dei recessi segreti della psiche – restituiscono una dimensione fatta di pura, incontaminata, emozione alla quale si può decidere di opporre resistenza oppure di assecondare il suo compenetrare nel profondo delle proprie percezioni. È da questa scelta che deriva il rapimento dei sensi che un album del genere può attuare. Esistono dischi che si apprezzano di pancia, altri di cervello, altri ancora nell’impervio terreno dei sentimenti: i sistemi temporaleschi degli Anathema provengono senza dubbio da questi territori che stabiliscono vincoli di appartenenza del tutto soggettivi con l’ascoltatore.

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Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 5 voti.
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luca.r 5,5/10

C Commenti

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swansong (ha votato 9 questo disco) alle 17:01 del 11 aprile 2012 ha scritto:

ah, che bello sapere che sono ritornati così presto! Uno dei miei amori musicali più intensi...

Utente non più registrato alle 22:33 del 19 aprile 2012 ha scritto:

Si presenta molto bene ed il 30 aprile suoneranno all'Alcatraz di Milano.

Utente non più registrato alle 13:54 del 23 aprile 2012 ha scritto:

...alla fine della fiera niente di nuovo...vedrò cosa combinano all'Alcatraz in compagnia degli Amplifier

swansong (ha votato 9 questo disco) alle 19:35 del primo giugno 2012 ha scritto:

Dopo attenti, ripetuti ascolti non posso che rallegrarmi con entusiasmo per questa nuova fatica dei grandissimi Anathema! Innanzitutto vorrei farti i complimenti Stefano per l'ottima - come al solito - analisi della quale (a parte il voto, ma è soggettivo) condivido in buona sostanza quasi tutto.

Non che mi aspettassi granchè dopo il per me incompiuto e, parzialmente, seppur bello, inconcludente We're here..., ma forse è proprio questa la ragione per cui ad ogni ascolto di Weather Systems mi sono accorto che lo scetticismo iniziale andava scemando a favore di un sempre più marcato piacere "uditivo". A voler essere pedanti, forse qualche difettuccio c'è (a mio avviso uno scarso uso della chitarra, soprattutto la spendida solista di Danny - per ascoltare la quale, dopo non so quanti anni, mi devo ributtare sull'ultimo splendido Antimatter "Leaving Eaden"!), nel complesso, però, siamo di fronte ad un lavoro riuscitissimo sotto tutti i punti di vista. Laddove il precedente mi dava un senso di incompiutezza, di ridondanza, anche per certi versi di inconcludenza, qui invece ogni tassello è studiato alla perfezione per colpire al cuore. Veramente, era dai tempi di Fine Day to Exit che un disco degli Anathema non mi emozionava così tanto. La scelta (già felicemente intrapresa con Falling Deeper) di concepire il lavoro come un unicum narrativo, dona all'insieme una omogeneità stilistica e melodica che mancava a We're here e che fa sembrare Weather Systems un vero e proprio concep album. Anche con riguardo ai testi, apparentemente banalotti, la scelta delle parole e l'uso armonico ad ”incastro” delle voci aiuta la struttura del lavoro a trovare una potenza espressiva fuori dal comune proprio nei frequenti momenti in cui esplode il crescendo musicale..semplicemente fantastici, in questo senso, i finali di Sunlight, Untouchable e The Storm before the Calm, ma tutto il disco sorprende per come sparge qua e là picchi melodici di rara bellezza. Anche l'elemento stilistico che “temevo” di più (quello sinfonico/orchestrale) è perfetto: presente, importante, ma non ingombrante e del tutto funzionale al climax drammatico dell'opera, quasi cinematografico.

Insomma, nulla da dire, assieme al mastodontico, splendido ultimo Crippled Black Phoenix disco dell'anno!