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R Recensione

7/10

Mothlite

Dark Age

Dal suo ingresso negli Ulver, Daniel O' Sullivan si è dato un gran da fare e ha impresso un segno profondo nella già multiforme materia musicale dei norvegesi: il compositore inglese, abile nel districarsi fra pianoforte, synth, chitarre, programmazioni ed ingegneria “da console”, si è innestato alla perfezione fra le fila di un ensemble già di per sé incline a rimodellarsi e a ridefinirsi di disco in disco.

Dal 2008 O' Sullivan (proponendosi anche come vocalist dalle qualità non trascurabili), persegue un percorso personale assai interessante: se l'esordio “The Flax Of Reverie” lambiva territori inquieti e diafani incorporando prospettive avanguardistiche, questo nuovo "Dark Age", si apre ad angolazioni obliquamente synth-pop e, a dispetto del titolo e delle liriche (concernenti le mai abbastanza sviscerate dinamiche che misteriosamente regolano vita, amore, morte, paura, fragilità, consapevolezza), sembra discostarsi dagli ossessivi crepuscoli del debutto per lasciarsi inondare di una luminosità espressiva, indiretta e filtrata quanto si vuole, ma decisamente riconducibile alle istanze comunicative degli Eighties.

Daniel O’ Sullivan - che ricordiamo in realtà musicalmente trasversali come Guapo, Æthenor, Sunn O))) – costruisce, insieme al produttore/musicista Knut Jonas Sellevold, una giostra colorata che solo nel suo vorticoso girare acquisisce una tinta uniforme, restituendo solo in modo indistinto, le vere sfumature delle tante e difformi schegge d’ispirazione che la costituiscono.

Il micidiale singolo Something In The Sky pare una variante elettronica, vista attraverso gli occhi degli Animal Collective, della poetica degli Shearwater (con degli introduttivi rintocchi di piano che citano Life’s What You Make It dei Talk Talk), mentre i Foals di "Total Life Forever" echeggiano fra i flussi sonori della sussultoria The Blood. La sospensione sensoriale di The Underneath è uno dei momenti più alti dell'intero lavoro: qui sembra che i Wild Beasts e Peter Gabriel si siano dati convegno fino a dar vita, negli ultimi minuti del brano, ad una variante chimica degli Ulver. Zebras è un altro episodio importante in cui O' Sullivan ricorre ancora ai Foals per evocare un'immagine artisticamente astratta dei The Cure. Le perturbazioni soniche si sovrappongono per non rendere troppo facilmente accessibile il messaggio intrinseco di "Dark Age": così Dreamsinter Nightspore reclama evidentemente la sua condizione ereditaria nei confronti del patrimonio dei Japan, ma sviluppando in laboratorio, un copione estraneo al pur vario repertorio teatrale della compagnia guidata da David Sylvian.

La suadente ballad tecnocratica Milk (il latte che si giustappone all'altro elemento – il sangue – che caratterizza le tematiche trattate: liquidi che simboleggiano l'impeto vitale, costantemente a rischio di spargimento, costantemente rigeneranti e nutrienti nel loro fluire), si richiama ai Depeche Mode di "Ultra", nel suo porgersi con ammaliante movenza, salvo poi nascondersi sotto dense risonanze stratiformi che la rendono meno decifrabile. La title track procede in questa scia, ricollegandosi ancora al repertorio e alla penna di Martin Gore, specialmente quando decide si riservarsi brani da interpretare con la sua voce.

L'ulveriana Wounded Lions (le suggestioni sonore sono molto simili a quelle di "Perdition City"), posta ad inizio di album, va confrontata direttamente con la conclusiva Red Rook, capace di mescolare tanto gli umori della formazione norvegese, quanto gli A Perfect Circle più dimessi e il David Sylvian di "Dead Bees On A Cake": se il conturbato dialogo interiore della prima, increspato da una elettronica mesmerica, si lascia lentamente pervadere da una melodia struggente e onirica (sorretta da un pathos corale), gettando una luce diafana sulle tracce che ad essa seguiranno, Red Rook, pur partendo da un universo sensibile affine (anche nell'andamento), pare aver sedimentato in sé tutte le emozioni delle canzoni che l'hanno preceduta, per sublimarle e per rilasciarne il calore, quando il caldo giorno si spegne. Il pezzo più "classicamente" suonato dell'intero "Dark Age" è un condensato di percezioni e di sensazioni, che spinge l'ascoltatore ad un momento di silenzio prima di ricominciare da capo, ossia proprio da quella Wounded Lions che, come i migliori incipit, nasconde in sé tutta l'essenza di un disco pieno di intuizioni, talvolta frammentarie e frammentate, talvolta completamente manifestate.  

Leoni feriti, zebre, corvi rossi, esseri umani dolenti. Il mondo dei viventi come un insieme indistinto in cerca di rigenerazione. Ricordate la domanda che appariva sullo schermo al termine del concerto degli Ulver alla Norwegian Opera House di Oslo? What Kind Of Animal Are You? Forse queste composizioni potranno aiutarci a trovare la coscienza necessaria a individuare e a balbettare una risposta. “Dark Age” è in sé un ottimo album, prodotto con cura e con l’attenzione rivolta al dettaglio: potrà essere apprezzato a patto che non si parta dalle alte aspettative di trovarsi di fronte al proseguimento di quella dialettica Post-Rock / Dark-Jazz che aveva oscuramente e fascinosamente ispirato “The Flax Of Reverie”. Altri Mothlite questi e, molto probabilmente, un altro Daniel O’ Sullivan.

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