R Recensione

8/10

Willow

Perditadeltempo

Le classificazioni e le catalogazioni nella musica possono dare sensazione di aridità e rigidità critica ma hanno anche, specie trattando di gruppi ancora in via di affermazione, indubbia utilità consentendo all’appassionato, all’interessato di farsi un’immediata idea di dove vada a parare l’ispirazione e l’estro della proposta musicale. Willow (salice, per i non anglofili) è allora una band lombarda senz’altro di progressive metal.

Coniugano perciò il gusto per le cangianti ed intricate situazioni strumentali e ritmiche, per i grandi e verbosi affreschi concettuali, per la ricerca melodica ampia e magniloquente, insomma tutte le tipiche coordinate del progressive con la potenza e la monoliticità del metallo pesante, estrinsecata da rocciose e intransigenti soluzioni chitarristiche, nonché da scelte vocali spinte sovente fino alla massima possibile drammaticità. Malgrado il nome anglosassone, precisa scelta degli Willow è l’uso dei testi in italiano. “Perditadeltempo” è una proposta che si articola in sette composizioni, scelte fra le quattordici totali dell’effettiva articolazione dell’opera.

Ragioni di opportunità hanno spinto il gruppo a contenere nella quarantina di minuti di questo dischetto la propria prolificità, ma l’accantonamento dei restanti brani è da intendersi solo temporaneo, Willow è attualmente alla ricerca di un’adeguata proposta contrattuale per dare completamento al concept attraverso la registrazione e la pubblicazione dei sette rimanenti episodi. Estraendo il dischetto dalla sua confezione dall’accattivante grafica ed inserendolo nel lettore si viene subito aggrediti dai potenti bicordi della Gibson di Massy Anfuso, i quali dispongono le immediate coordinate stilistiche entro cui questa formazione intende muoversi: robusto e immaginifico progressive anni ’90. Massimiliano è anche voce solista del gruppo e si prodiga gagliardamente lungo tutto l’album, toccando coinvolgenti momenti di autentica passione e trasporto, a rischio talvolta di bruciarsi veramente le corde vocali.

Lui è un urlatore, un istintivo, esprime il meglio di sé quando sfoga fino in fondo ciò che ha nella strozza, senza risparmio; è condizione molto generosa e passionale, che però per durare nel tempo avrà bisogno di adeguata revisione tecnica, dato che purtroppo gli organi del nostro corpo spesso non ne vogliono sapere di seguire in toto gli estri estremi di cuore e cervello (uno come Robert Plant, per dire, s’è giocato cospicua parte della sua splendida voce in pochi anni…al quinto album degli Zeppelin era già passato a gorgheggi assai meno spettacolari).

A spalleggiare il frontman vi è innanzitutto un’agile e creativa sezione ritmica, composta da Joey Galimberti al basso (e seconda voce) e Filippo Valnegri ai tamburi, l’indubbia capacità tecnica dei quali, alle prese con poliritmiche e complesse partiture, risalterebbe ancor di più se assistita da maggiore e più estesa presenza timbrica: la masterizzazione del dischetto infatti soffre parzialmente sotto il profilo dinamico, e il suono generale risultante, un poco “anni ‘80”, non favorisce un tipo di musica per la quale di potenza e incisività agli estremi dello spettro delle frequenze non ve ne è mai troppa (persino i grandi Dream Theater, per restare nel genere, soffrono di questi problemi: il basso del virtuoso John Myung spesso e volentieri non ne vuole sapere di saltare fuori dal mix).

L’attuale tastierista Fabrizio Minichini suona solo in una porzione del disco, avendo solo in tempi recenti rilevato il ruolo di Daniele Manzoni, uno dei fondatori del gruppo ancorché apprezzabilissimo in queste registrazioni, ad esempio per come riesce a far “abbaiare” l’organo in certi passaggi e per i pieni orchestrali a sostegno dei refrain più drammatici. Tornando però alla descrizione dei brani, precedentemente solo iniziata, la traccia introduttiva “Pressurizzazione” vede il corposo riff chitarristico, di cui si diceva, svariare ritmicamente al 10/8 per accogliere un doppio recitato, teso e suggestivo, ai due estremi dell’immagine stereo. Il passaggio al secondo brano “Resistente” è senza soluzione di continuità, con un acquietamento verso una sezione arpeggiata con effetto leslie, larga e ristoratrice dopo la corsa sfrenata del prologo.

Ma stavolta è il basso di Joey a dissolvere la quiete generale impostando un bel groove da far invidia ai Rush e consentendo a Massy ancora intense e drammatiche vocali, contrappuntate dai sapienti interventi in registro di ottoni del pulito e quadrato Daniele. Tra rallentamenti ed accelerazioni il brano si dilunga verboso e drammatico, rappresentando certamente uno dei fulcri attorno cui ruota il concept. “La fata della forza” è invece condotta da lirici stacchi pianistici intersecati dall’arpeggio dell’elettrica e poi squassati dal suo riffing sincopato, entro cui borbotta e ruggisce l’organo quando non è poi il testo a imporsi nuovamente.

La lingua italiana, così povera di consonanti, fa la sua fatica in questi frangenti, lode perciò al gruppo per lo sforzo fatto a favore del nostro idioma, visto che l’inglese in questi passaggi avrebbe facilitato, e di molto, le cose. Bellissimo l’assolo di chitarra, col pedale wah wah e sul…pedale del basso! “Brutti sogni” accoglie il nuovo tastierista Fabrizio che si esibisce subito in un arpeggio ampio e romantico, di puro tocco, per poi mutare come un camaleonte e staccare duri accordi quando il basso impone un nuovo strattone ritmico, trascinando ben presto tutto il gruppo in un episodio che comunque resta compatto e relativamente breve. “Brucia la strega” invece non dà tregua dall’inizio alla fine, accesissimo e superarrangiato, evidentemente da tempo nel repertorio della formazione che si è presentata assolutamente preparata alla sua registrazione.

Joey e Filippo, ispirati da maestri del ritmo quali Geddy Lee e Neil Peart, sfoderano mirabile tecnica e coesione ritmica, da leccarsi i baffi. Più rarefatta e lineare la seguente “Senza Me”, dove ancora le ridondanti sovrastrutture verbali rischiano quasi di non riuscire a entrare tutte, nelle battute musicali. Ci pensa il talentuoso lavoro al synth, prima con un breve assolo e poi con un arpeggio in assolvenza, a creare un intermezzo di classe, giusto per consentire un attimo di respiro alla straripante energia di Massy, pronto a ripartire subito dopo e fino alla conclusione.Chiude l’album “Incompleto” col suo recitato pieno di riverbero su una base fintamente quieta. La tempesta si concretizza puntuale a metà brano, con una nuova torrenziale fase strumentale in 10/8, mutata a 6/4 per le ultime strofe di epilogo sul quale Filippo spende le ultime serratissime rullate.

Willow merita. C’è tanta suggestione, attenzione ed applicazione in queste pagine complesse e romantiche. Un grande in bocca al lupo.

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