Pearl Jam
Backspacer
Un vecchio treno che sbuffa e macina chilometri: i Pearl Jam sono ancora in giro. Come i moschettieri di Dumas, vent’anni dopo l’epopea di Gossard e Ament nei Mother Love Bone e i pieni di benzina di Eddie Vedder sulla via del surf a San Diego. Per chi li ama è la conferma della solidità di un progetto capace di resistere anche alla fine della Golden age di Seattle ( unici coi Mudhoney, sedute spiritiche degli Alice in Chains a parte) e di confermare il proprio status di infallibile macchina da tour. Per chi li detesta, è solo un residuato bellico tenuto in piedi da una ineffabile aurea mediocritatis in un rock mainstream privo di nuove icone credibili.
L’ennesima fatica dei nipoti di nonna Pearl non cambierà di un millimetro le posizioni dei due schieramenti. La carriera di un gruppo che da quasi una decade ormai ha smesso di rischiare si sposta di un’altra tacca, grazie anche all’astuto ripescaggio del mestiere di Brendan O’Brien in cabina di regia.
“Backspacer” e’ difatti il solito, altanenante disco dei Pearl Jam maturi, fatto di chiaroscuri che spaziano dai consueti rock and roll all’arma bianca, da qualche impennata folk lisergica dalle velleità sempre meno sperimentali e dal rinnovato, virile intimismo acustico di Eddie Vedder, apprezzato anche da parecchi storici detrattori recentemente via Sean Penn.
Proprio il carismatico vocalist apre le ostilità, firmando di suo pugno l’arrembante “Gonna see my friend”, che reporta ai tempi delle scorribande con Neil Young, subito doppiata dalla vibrante “Got some”. Peccato che i suddetti siano gli unici pezzi riusciti in tal senso: “The Fixer”, “Johnny Guitar” e “Supersonic” presentano inquietanti tinte da radio FM più che la freschezza power-pop cui vorrebbero anelare. E pure i fragori vagamente AOR degli intrecci chitarristici targati Gossard-McCready di “Force of nature” risultano onestamente prescindibili.
Nel cuore dell’album alberga “Amongst the waves”: la classica, solenne composizione di Stone Gossard, che in coppia con “Unthought Known” evoca brandelli mitici del passato tipo “Garden ” o “Present tense” generando al massimo un gradevole effetto amarcord per i nostalgici della flanella. Assai meglio il mid tempo di “Speed of Sound”, che approda nelle magioni di Tom Petty trainata da pennellate d’organo particolarmente insidiose.
Sorte alterna, infine, per i momenti in zona Into the Wild: “Just breathe” appare alquanto piaciona e involuta, avvitandosi subito in un cliche’. Splendido invece il mantrico crepuscolo di “The End”, che risplovera un Vedder deluxe, col respiro delle storie epiche d’annata dal sapore vagamente springsteeniano. E un’interpretazione sublime, librata come il fogliame reso terso dalla brina irrorata da un soffice arrangiamento d’archi.
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