Death
Symbolic
Cos'è un capolavoro? Qualcosa che ti lascia interdetto, senza parole, quando pensavi di sapere tutto e invece non sai un bel niente. Ecco cosa successe al sottoscritto quando il 21 aprile di 25 anni fa ascoltò per la prima volta quel monolite che rispondeva al nome di Symbolic, di quella sigla geniale il cui nome era tutto un programma: Death.
In realtà a quella sigla mi ci avvicinai con gradualità, partendo da un amore folle e incondizionato per Megadeth, Metallica, Sepultura e Pantera, ma del tutto consapevole che in fondo quello non era altro che l'inizio di un fragoroso ed inebriante viaggio verso il metallo pesante, che schiariva le grigie e sempre uguali giornate di un adolescente brufoloso e sfigato quale ero.
Complice di quella scoperta, l'amico master-mind di tutto lo scibile possibile ed immaginabile di metal e derivati: un bassista capellone proveniente dalla Calabria che mi introdusse all'Eldorado di quella musica sferragliante e tremendamente eccitante: Type O Negative, Carcass, Deicide, Candlemass, giusto per citare qualche nome illustre, dissetavano quella voglia spasmodica di nuovo.
Poi, improvvisamente in un pomeriggio come tanti, l'amico di cui sopra mi fece ascoltare The Gallery degli scandinavi Dark Tranquillity, non prima di proferire: questo è niente, c'è sempre qualcosa che viene prima, come questo e mi indicò quel monumento dei Carcass che è Heartwork, poi ci sono loro ed erano proprio i Death.
Non disse altro. Inutile dire che da quel momento in poi la mia vita fu segnata indelebilmente. Un disco tecnico, aggressivo, suonato da Dio, con lampi melodici che ti squarciano in due e una vena prog da far invidia a chiunque.
Quello che fino a qualche anno fa veniva additato come semplice sottogenere, attraverso i dischi assolutamente incredibili di quel genio, deus ex machina del progetto, ovvero Chuck Schuldliner, assurgeva a musica inclassificabile, se non con una sola parola; meravigliosa.
Già l'attacco della title track mi procura svariati brividi lungo la schiena anche adesso che mi accingo a scrivere queste indegne parole: un riff granitico, le urla di Chuck, poi le sfuriate in doppia cassa alla velocità supersonica di quel genio di Gene Hoglan; la canzone death metal per antonomasia (forse la sola Heartwork dei Carcass può reggere il confronto).
Il resto è storia: Zero Tolerance con quegli stop and go formidabili, quei riff perfetti, le asce di Schuldliner e Bobby Koelbe che dialogano in maniera mirabile (anche lui un genio della sei corde, mai valutato come si dovrebbe), poi le melodie orientaleggianti di Empty Words che si dileguano in un magma ribollente di riff e assoli lancinanti.
Sacred Serenity introduce al mondo un altro geniale bassista, Kelly Conlon, dalla tecnica essenziale, mai banale, che sembra talvolta rimarcare l'implacabile blast beat di Hoglan o le linee melodiche di Schuldliner, quando in realtà contrappunta con quella nota in più l'arrangiamento restituendo, proprio come l'illustre suo predecessore, l'immenso Steve Di Giorgio, dignità al basso nel metal, ruolo quanto mai indispensabile e quindi sempre meno marginale che in passato.
Poi c'è il thrash metal di 1,000 Eyes, con l'indimenticabile scream di Chuck, quello straordinario tapping saturo di flanger e quella splendida melodia, poi Without Judgment e i suoi repentini cambi di metrica, quelle melodie ancora una volta straordinarie e quel basso che dialoga magistralmente con chitarre e batteria.
Tutto è calibrato alla perfezione, senza alcuna nota che sia fuori posto. Anche le liriche sono straordinarie e suggestive: This is not a test of power / This is not a game to be lost or won / Let justice be done / There will be zero tolerance (Zero Tolerance) oppure Privacy and intimacy as we know it will be a memory among many to be passed down to those who never knew, living in the pupil of a 1,000 eyes (1,000 Eyes). Implacabili, Misanthrope e Perennial Quest chiudono il programma lasciando senza fiato ancora una volta, dopo 25 anni.
Ora che i brufoli sono spariti e la barba ha fatto capolino insieme a qualche anno in più, il brivido è sempre lo stesso. Un classico senza tempo, che a dispetto della ragione sociale sprizza vita da ogni solco. Sia lode in eterno a te, Evil Chuck.
Tweet