Qui + Ultrakelvin
Split
Negli undici anni abbondanti persi ad imbrattare carta (anche se solo digitale) ne ho viste e sentite di cotte e di crude. Compresa quella volta ad un certo concerto che, nel tentativo infelice di sembrare simpatico, un tizio mai più incrociato in vita mia mi disse che, in quanto aspirante scribacchino, mai avrei dovuto parlare di gruppi padovani, altrimenti risalta la tua padovanità. Aldilà del fatto che 1) credo di essere, assieme a Tito Livio, lunico uomo sulla faccia della terra e nella storia documentata a sentirsi affibbiare un tale attributo e che 2) seppur attestati, patavinitas latino e padovanità italiano fanno schifo uguale, il rilievo torna, periodicamente, a darmi da pensare. Come faccio, ora, a comunicare agli interessati che 1) è tornato in pompa magna uno dei migliori gruppi noise del Triveneto (toponomastica grātiās agō) a cavallo tra Vecchio e Nuovo Millennio 2) è tornato in formazione allargata, per lappunto ultra, accogliendo per loccasione (e senza essere pakato dai piddioti!!!!1!1) il profugo Panda dei criogenizzati Putiferio 3) è tornato con uno split in 300 copie (in vinile splatter black trasparente con copertina silkscreened, non so se mi spiego) condiviso nientepopodimenoche con i losangelini Qui?
La teoria degli infiniti futuri contingenti, indeterminismi a parte (non ce ne voglia il buon Łukasiewicz) favorirebbe due soluzioni di massima: far finta che nulla sia e ripiegare su qualcosa di più accessibile e meno padovano (chessò, lultimo disco dei Fleet Foxes), oppure fregarsene e tirare dritti. Dacché le parole al miele di Maynard Keenan per L.A. possono applicarsi tranquillamente anche per la mia città di nascita e residenza, opterò consapevolmente per la seconda. In sintesi: una facciata a testa per band, una sostanziale equipollenza di minutaggio (ai Qui, per anzianità?, vengono destinati un paio di minuti supplementari) tuttavia vanificata da una curiosa asimmetria formale (ai sei pezzi degli Ultrakelvin ne corrisponde uno solo dei Qui). Ed è proprio da qui, che partiamo. In the deep space, cloud[s(are)]dead. I primi cinque minuti di Fuck Outer Space sono sospironi e grattini soul resi indistinti dalle nebbie e dalle storture noise di una Nub: poi entra in scena il riff principale, una stolida lama tra sirena dambulanza e intontimenti à la My Disco che fa da contorno ad una cantilena swingata. Il brano si sfalda e frastaglia col passare dei minuti, inglobando sample vocali, spicchi plunderfonici, accostando fraseggi blues e ipersaturazioni harsh, in un saggio di post-modernismo a tratti ridondante che si conclude con una grottesca sonatina beefheartiana di piano.
Anche Woolter, Anna e Panda preferiscono Guglielmo di Ockham a Łukasiewicz: il che è chiaro sin dallattacco brutale di VII Chrissie Crowley, Creepy Crawler, un panzer doom-core di quelli che non le manda a dire (eufemismo). Diversi e felici i momenti in cui lottovolante deraglia tra lo stupore degli astanti, come quando Anna illividisce di colpi la tastierina tetraplegica di III Hellzabomber, quando lanthemico grunge radioattivo di IV Boneless, Teethless sfocia nel punk-core iperteso à la Retox di II Black Rambo, quando nelle grattuggiate a singhiozzo di VI Dwarf In Reverse si risente la psicosi del mai troppo celebrato Ate Ate Ate. Il mio gusto personalissimo e quindi, in quanto padovano, opinabilissimo avrebbe solo defoliato qualche ramo della lunga esplorazione industrial-noise di I Ham Slam! (la saga di Randy The Ram Robinson musicata dai Barkmarket? Una Vertebreaker griffata Amphetamine Reptile?): ma immagino che dal vivo la cosa risulti parecchio esaltante.
Per quanto mi riguarda, un regalo coi controfiocchi. Nadae de sarveo, Nadae de core.
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