A Post-core e post-verità - Intervista a Pierpaolo Capovilla (One Dimensional Man)

Post-core e post-verità - Intervista a Pierpaolo Capovilla (One Dimensional Man)

Una vita appassionante, sopra e sotto al palco. Il feroce ritorno della formazione con cui tutto inizio, più di vent’anni fa. Il killer che ripassa sul luogo del delitto. Una scena distrutta e svanita, evaporata in milioni di rivoli, nell’attesa messianica di un nuovo inizio (capitanato, magari, proprio dai numi tutelari di un tempo). E poi la politica del quotidiano, l’assuefazione a violenza ed indifferenza, la lotta con sé stessi e con ciò che ci circonda. Passa il tempo, ma scambiare quattro chiacchiere con Pierpaolo Capovilla rimane sempre stimolante. Ecco cosa ci ha raccontato a proposito di “You Don’t Exist”, nuovo e riuscito parto dei suoi One Dimensional Man.

1) Ricordo che, qualche tempo fa, in occasione dell’uscita de “Il Mondo Nuovo”, avevi rilasciato una dichiarazione in cui davi voce ad una certa stanchezza fisica e mentale, qualcosa sulla fatica della vita on the road a quarant’anni suonati. Per questo trovo curioso il fatto che i tuoi due ultimi dischi, “A Resting Place For Strangers” dei Buñuel e “You Don’t Exist” degli One Dimensional Man, contengano alcune delle tue cose più pesanti di sempre. È una scelta ponderata o una semplice contingenza?

PP_ Credo di ricordare quell’intervista. Mi fu fatta nella hall di un albergo. Ero in piena tournée con Il Teatro Degli Orrori, fisicamente distrutto e psicologicamente provato. Suonare tanti concerti così emotivamente intensi ti può portare a momenti di scoramento e disperazione interiore. Per me il concerto dal vivo è un momento di vita vero, non un gioco. È avvincente, spesso è divertente, ma dopo un po’ diventa una fatica tremenda, e a volte, e sottolineo “a volte”, un tormento, un sacrificio di sé. Lo stress psicologico diventa difficile da tollerare. Ma è una circostanza temporanea; se dentro di te alberga una vocazione, i momenti difficili li superi, e, superati, ritorni al palcoscenico, più forte di prima.

2) Il precedente disco di One Dimensional Man, “A Better Man”, aveva ricevuto critiche contrastanti. Una delle discontinuità più evidenti tra quello e questo “You Don’t Exist” sta, a mio avviso, nella diversa cifra del batterismo di Francesco Valente, più compatto e solido rispetto a quello di Luca Bottigliero. Ti ritrovi nella mia osservazione? Ha pesato il fatto di lavorare con un musicista che conosci e con cui collabori da molto più tempo?

PP_ Considero Franz il miglior batterista con cui abbia mai suonato. Il suo drumming è non solo preciso, ma molto essenziale, coscientemente sintetico. Suonare il basso con Franz, poi, è per me un godimento unico. A volte ci sembra d’essere un solo musicista, tale è la sincronia che spontaneamente emerge nell’esecuzione dei brani. Visto che me ne dai l’occasione, vorrei ricordare che non è la prima volta che Franz suona con One Dimensional Man; ai tempi di “Take Me Away”, e proprio con Carlo alla chitarra, Franz sostituì Dario Perissutti durante l’ultima fase del tour dell'album. Il suo è un ritorno al gruppo, più che un esordio.

3) Puoi parlarmi un po’ dei testi di “You Don’t Exist”? Su cosa hai deciso di soffermarti?

PP_ Dal punto di vista narrativo, “You Don’t Exist” è forse l'album più “politico” ch’io abbia registrato. I testi si soffermano in particolare sulle guerre, questi spettacoli della morte a cui ci hanno abituati i nostri governi, il Dipartimento di Stato USA, la NATO, gli interessi delle multinazionali, e la nostra indifferenza. Ed è proprio sull'indifferenza, sul qualunquismo, sulla rassegnazione che caratterizzano la società d’oggigiorno, che il tessuto narrativo del disco si accanisce. “A Crying Shame”, che è l'unica ballata dell’album, ma è forse il cuore pulsante del nuovo repertorio, parla di post-verità, di accidia, della mancanza di senso a cui tutti siamo spinti in questo momento storico, ma anche di speranza, speranza nella lotta di classe, che risorgerà, perché risorgerà.

4) A differenza de Il Teatro Degli Orrori, che ha sempre rivendicato con un certo orgoglio i propri riferimenti italiani, One Dimensional Man continua ad essere un progetto di respiro e prospettiva più internazionale. Quali sono stati i tuoi ascolti più recenti? Cosa hai cercato di convogliare nel disco?

PP_ Abbiamo cercato di fare un disco d’altri tempi, ispirandoci ai nostri gruppi più amati, i Jesus Lizard, naturalmente, il suono Touch&Go o Homestead, ma anche l’hardcore americano degli anni ottanta. Nel disco c’è una cover di Saccharine Trust, “We Don’t Need Freedom”. È un pezzo tratto da “Pagan Icons”, del 1981. Sembra scritto ieri, e quando dice “we don’t need actors or rockstars, all we want is farmers and soldiers” la coincidenza con il presente si fa sorprendente. Il fatto è che quella musica, emersa in America fra gli ottanta e i novanta, rappresenta, secondo il mio punto di vista, il momento più felice della tradizione rock delle ultime decadi; un momento di lotta, di rivolta anti-sistemica e anti-capitalistica, di comunione di intenti, di consapevolezza politica e artistica. Non bisognava essere dei musicisti eccellenti, ma bisognava essere uomini e donne alla ricerca di una società più giusta e più uguale. Dammi pure del pazzo, ma io nella chitarra di Greg Ginn ci sento la fratellanza.

5) Di “You Don’t Exist” mi piace il fatto che, pur essendo un disco rock vecchio stampo, non rinunci ad una propria eterogeneità interna, un viaggiare perpetuo tra stili ed influenze (penso, ad esempio, alla bella ballata noir “A Crying Shame”). Mi viene inevitabile chiederti, a questo punto, una riflessione sul peso che può avere un disco come questo nella congiuntura storica peggiore di sempre per il rock.

PP_ E qui arriviamo al punto. Nella nostra testa tenacemente rockettara c’è il desiderio di contribuire ad un rinascimento del rock più impegnato e intransigente, proprio nel peggior momento di sempre, quello della plastica statunitense, quella specie di finzione del rock celantesi in produzioni roboanti, ma priva di contenuti, senza poesia, senza meta, se non quella di vendere. Non se ne può più. Cerchiamo l’autenticità, senza compromessi. E speriamo serva a qualcosa.

6) One Dimensional Man fa il suo comeback in contemporanea ad un altro grandissimo act tricolore dei Nineties “rumorosi”, i Fluxus di Franz Goria. Come pensi sia cambiata la vostra scena di riferimento, rispetto ai vostri esordi?

PP_ Sono tornati i Fluxus? Questa sì che è una bella notizia! La scena di riferimento? Intendi quella italiana? Se è così, beh… Non c’è più alcuna scena. Come cantava Franz in “Pura Lana Vergine”, è tutto da rifare. Siamo qui per questo.

7) A breve partirà il tour promozionale del disco. Come pensi (e speri) reagirà il pubblico? L’assenza dalle scene per un lasso di tempo così pronunciato può essere stata, in un certo senso, deleteria?

PP_ Sono fiducioso. L’anno scorso, ben prima della pubblicazione del disco, abbiamo fatto una ventina di date, giusto per riprendere confidenza con il combo e per “rodare” le nuove canzoni. Non sono andate male, anzi. E il pubblico è rimasto impressionato dalla cattiveria delle performance. Facciamo un rock virulento. È contagioso.

8) In chiusura: sentiremo presto buone nuove anche dai fronti Buñuel e Il Teatro Degli Orrori?

PP_ Il Teatro Degli Orrori è in stand-by. Di Buñuel avrete presto, prestissimo, notizie significative. Il nuovo album è pronto e masterizzato. Sarà un disco oscuro, infernale, molto più sperimentale di One Dimensional Man, prodotto da Xabier Iriondo, con un Eugene Robinson al meglio delle sue temibili capacità. Uscirà anch’esso per La Tempesta International e Good Fellas.

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