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R Recensione

6,5/10

Marnero

Il Sopravvissuto

Nella notte dello scorso venerdì 13 settembre, dopo un concerto condiviso con Raein e Holy nella saletta dove il gruppo aveva provato per una decina d'anni, i Marnero hanno subito il furto – da parte di, speriamo ancora per poco, ignoti – di gran parte della loro strumentazione. A questo link, tratto dalla loro pagina Facebook, potete trovare la lista completa degli strumenti trafugati, nel caso aveste l'occasione di rivederli in vendita su qualche sito specializzato, o nel caso vogliate contribuire, economicamente, per sostenere i ragazzi. Il tour di promozione de “Il Sopravvissuto”, terzo disco della band, secondo capitolo di un'annunciata “trilogia del fallimento”, primo per la Dischi Bervisti di Nicola Manzan (ed una cordata di altre sei etichette, in un do ut des che sta facendo la fortuna di queste uscite, in questi anni), in free download sul loro Bandcamp, proseguirà da qui in avanti con un'altra decina di date sparse in giro per l'Italia. Un'occasione in più per seguire da vicino un pezzo di storia musicale italiana ridipinto di nuovo, voi, e per recuperare un lavoro meritevole di riflessione, noi.

L'appartenenza ed il posizionamento musicale dei colleghi compartecipanti a quella sciagurata data di qualche giorno fa aiuta, a sua volta, ad inquadrare con più accortezza il percorso personalissimo dei Marnero, zattera alla deriva che galleggia su resti di signore esperienze (semimitiche, per qualche verso, si potrebbe dire) del tardo hardcore italiano degli anni '90. Chi ha amato l'acume controcorrente dei Laghetto, uno dei complessi più brillanti e musicalmente e testualmente che lo Stivale abbia mai avuto l'onore di accogliere, riconoscerà al primo approccio la voce abrasiva di John D. Raudo, come sempre anche alla chitarra: viceversa, i vecchi appassionati degli storici sette pollici di Gravity e Three One G – confessabili e confessate influenze anche dei compagni di strada e avventure Putiferio – non avranno alcuna difficoltà ad approdare sulle sponde di un magma sonoro che in quel ventre è attecchito e da quel grembo è stato, all'epoca, vomitato fuori con virulenza ed intelligenza. Non è dunque un disco nuovo, “Il Sopravvissuto”, né, per impiegare un aggettivo formato con la stessa radice, innovativo, nel suo rimestare in un paiolo di fascinazioni e cotte applicate, con rigorismo criptofilosofico, ad un paradigma lirico mai banale, di grande impatto e profondità, sebbene a tratti cullato in una sorta di enfasi concettuale che – inevitabile rimarcarlo – ha fatto sicuramente le fortune del genere.

Interessante è, semmai, osservare il disco da un'angolazione privilegiata: quella di chi ha già trovato la quadra e guarda in retrospettiva. Non è facile far rimare i due concetti antitetici di “opera hardcore” e “concept album”, specie se la durata, ridotta all'osso, è un'ulteriore discriminante. Merito ai Marnero per esserci riusciti, senza apparente fatica. Il filo rosso è il racconto di un allegorico Sopravvissuto che, da Odessa a Zonguldak, in quattro distinti quadranti (tutto da leggere il diario di bordo in allegato con i brani), affronta la traversata interiore di tre insormontabili oceani: l'Abisso del Possibile sotto forma dell'Irrealizzato, l'Abisso del Possibile sotto forma dell'Irrealizzabile, il Possibile attuabile sotto forma di Libertà e Condivisione. La tormentata introspezione emocore viene mandata in pezzi da un impatto frastornante, di chitarre che si avvitano su traccianti post-core e arpeggi in crescendo su ampi monologhi recitati (“Ora non avevo più un'ombra, né un nome / Ma forse un'ombra e un nome non ce li avevo mai avuti / Sono tornato a cercare il mio mare, sono tornato a pescare sillabe / Perché non sai mai cosa sei, e non sai mai cosa vuoi”, da “Come Se Non Ci Fosse Un Domani”), acutizzata in spasmi di elegante e decadente cinematismo – gli archi di Michele Boldrin nell'andatura melodrammatica di “(Come Infatti Non C'è)” –, le roventi bolle d'aria dei Neurosis in una “Il Porto Delle Illusioni” che, in sette minuti e passa, codifica tutte le tendenze d'oltreoceano (è il caso di dirlo!) di metà anni '90 e, ultime ma non per ultime, le progressioni accecanti di “(Che Non Sono Mai Stato)”, noise metamorfico dalla prestanza apocalittica.

Sciaguattando tra intermezzi simil-doom (l'atmosfera crepitante di elettricità di “Prologologia”) e sezioni di riff che si intersecano, con schemi tradizionalmente hc, su piani altresì decisamente più plumbei (“Rotta Irreparabile”), si approda al porto di “Zonguldak”, per metà soundtrack dell'oltretomba e per l'altra metà inquieto post-core che esplode in un finale liberatorio, con perfetta circolarità strumentale e testuale. Per permettere al quartetto bolognese di compiere un ulteriore scatto in avanti, e per far sì che questa trilogia trovi il suo originale compimento, ora tocca anche a voi. Avete tutto, a vostra disposizione, per giudicare e trarre conclusioni.

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Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 4 voti.
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