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R Recensione

7/10

A Storm Of Light

Forgive Us Our Trespasses

Forgive Us Our Trespasses”: rimetti a noi i nostri debiti. Un passo dal Padre Nostro per giustificare, nella tempesta di luce, qualche sgarro di troppo. Il primo e più importante, anzitutto, l’aver confutato, appena un anno fa, l’empirica equazione supergruppo = superalbum: come sovente avviene in queste circostanze, la somma delle parti aveva generato semplice e confusa addizione, anziché complementarietà, e l’insieme di “And We Wept The Black Ocean Within”, tolto il rifferama miasmico tipicamente post-core, faticava a reggersi in piedi. Una seconda invocazione, pronunciata gravemente dal leader Josh Graham, per richiamare il perdono dopo la colpa di aver allontanato dalla line-up il batterista Vincent Signorelli, uno dei più positivi nel contesto della prova precedente, dallo stile anch’esso pressante, opprimente ed apocalittico. Infine, ultimo salmodiare a cui offrire, in sacrificio, un intero concept: in barba ai Maya, al 2012, a Voyager, il mondo che si prefigurano di rappresentare gli A Storm Of Light in questo loro secondo passo discografico è un involucro che si avvia, inarrestabile, verso un’autodistruzione consapevole, violenta fine di un ciclo nato per esserlo.

Il fuoco che si eleva dalla grande pira finale non è però tinto di quel nero abissale, monolitico e monocromatico già disperso al primo giro. Al contrario, l’imponente e certosina manovella delle orchestrazioni viene girata in modo tale da ottenere quante più sfumature cromatiche all’interno di ogni singolo pezzo. Impossibile non collegare, all’immaginario del quartetto, un senso di angoscia e desolazione interiore, nichilismo abbracciato come via di fuga (con un topos simile, potrebbe essere diversamente?): tuttavia, quella che sulla carta dovrebbe apparire come zavorra ideologica dalla quale far dipendere, in un modo o nell’altro, anche le progressioni strumentali, viene decorata attraverso un massiccio impiego di una più varia effettistica e di un parco ospiti, una su tutti Lydia Lunch, che donano un fascino del tutto decadente ed ombreggiato all’insieme. I Neurosis sono superati, come modello sonico e concettuale, (quasi) completamente, per lasciare spazio ad un’arte propria, estremamente plastica e fluida nell’alternare ariose, tragiche armonie (il cheek to cheek di chitarra ed archi in “The Light In Their Eyes”, rilevante) a tuffi introspettivi che riemergono in superficie, introiettati dentro una bolla di rabbia languida, simile a quella dell’altro progetto parallelo Battle Of Mice (“Amber Waves Of Gray” ha assonanze, per dire, con una “Bones In The Water”, e la coda interstellare è tutta da gustare).

Ritentare, allora, diventa una password quasi obbligatoria, se non altro perché la noia che si diffondeva nascostamente in alcune trame dell’esordio viene, su questa dimensione, annullata da parentesi acustiche quasi post rock, per chitarra, banjo e spoken word demoniaco – “Alpha (Law Of Nature Pt 1)”, “Arc Of Failure (Law Of Nature Pt 2)” –, disintegrata da squarci pittorici, come i Mastodon di “Crack The Skye” in tese ambientazioni tastieristiche (la bella “Tempest”) e dispersa in mille sbuffi solforosi, laddove il cadenzato mordente vecchio stampo, su “Across The Wilderness” in questo caso, viene doppiato al fotofinish da raspi di cori femminili, con un contrasto semplicemente fantastico. I dodici, estatici minuti di “Omega” sono solo il concentrato (?) di quanto singolarmente espresso lungo l’ora a disposizione, guerresco post-core le cui intenzioni belligeranti vengono sostenute ed amplificate da un’intelligente rete di sintetizzatori e da una linea melodica che ne fustiga il midollo spinale, lasciandolo agonizzare in una maglia di chitarre. Punto di non ritorno, o base da cui ripartire?

Con un saldo così, il Padreterno rimetterà sicuramente tutto.

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