A Storm Of Light
Forgive Us Our Trespasses
Forgive Us Our Trespasses: rimetti a noi i nostri debiti. Un passo dal Padre Nostro per giustificare, nella tempesta di luce, qualche sgarro di troppo. Il primo e più importante, anzitutto, laver confutato, appena un anno fa, lempirica equazione supergruppo = superalbum: come sovente avviene in queste circostanze, la somma delle parti aveva generato semplice e confusa addizione, anziché complementarietà, e linsieme di And We Wept The Black Ocean Within, tolto il rifferama miasmico tipicamente post-core, faticava a reggersi in piedi. Una seconda invocazione, pronunciata gravemente dal leader Josh Graham, per richiamare il perdono dopo la colpa di aver allontanato dalla line-up il batterista Vincent Signorelli, uno dei più positivi nel contesto della prova precedente, dallo stile anchesso pressante, opprimente ed apocalittico. Infine, ultimo salmodiare a cui offrire, in sacrificio, un intero concept: in barba ai Maya, al 2012, a Voyager, il mondo che si prefigurano di rappresentare gli A Storm Of Light in questo loro secondo passo discografico è un involucro che si avvia, inarrestabile, verso unautodistruzione consapevole, violenta fine di un ciclo nato per esserlo.
Il fuoco che si eleva dalla grande pira finale non è però tinto di quel nero abissale, monolitico e monocromatico già disperso al primo giro. Al contrario, limponente e certosina manovella delle orchestrazioni viene girata in modo tale da ottenere quante più sfumature cromatiche allinterno di ogni singolo pezzo. Impossibile non collegare, allimmaginario del quartetto, un senso di angoscia e desolazione interiore, nichilismo abbracciato come via di fuga (con un topos simile, potrebbe essere diversamente?): tuttavia, quella che sulla carta dovrebbe apparire come zavorra ideologica dalla quale far dipendere, in un modo o nellaltro, anche le progressioni strumentali, viene decorata attraverso un massiccio impiego di una più varia effettistica e di un parco ospiti, una su tutti Lydia Lunch, che donano un fascino del tutto decadente ed ombreggiato allinsieme. I Neurosis sono superati, come modello sonico e concettuale, (quasi) completamente, per lasciare spazio ad unarte propria, estremamente plastica e fluida nellalternare ariose, tragiche armonie (il cheek to cheek di chitarra ed archi in The Light In Their Eyes, rilevante) a tuffi introspettivi che riemergono in superficie, introiettati dentro una bolla di rabbia languida, simile a quella dellaltro progetto parallelo Battle Of Mice (Amber Waves Of Gray ha assonanze, per dire, con una Bones In The Water, e la coda interstellare è tutta da gustare).
Ritentare, allora, diventa una password quasi obbligatoria, se non altro perché la noia che si diffondeva nascostamente in alcune trame dellesordio viene, su questa dimensione, annullata da parentesi acustiche quasi post rock, per chitarra, banjo e spoken word demoniaco Alpha (Law Of Nature Pt 1), Arc Of Failure (Law Of Nature Pt 2) , disintegrata da squarci pittorici, come i Mastodon di Crack The Skye in tese ambientazioni tastieristiche (la bella Tempest) e dispersa in mille sbuffi solforosi, laddove il cadenzato mordente vecchio stampo, su Across The Wilderness in questo caso, viene doppiato al fotofinish da raspi di cori femminili, con un contrasto semplicemente fantastico. I dodici, estatici minuti di Omega sono solo il concentrato (?) di quanto singolarmente espresso lungo lora a disposizione, guerresco post-core le cui intenzioni belligeranti vengono sostenute ed amplificate da unintelligente rete di sintetizzatori e da una linea melodica che ne fustiga il midollo spinale, lasciandolo agonizzare in una maglia di chitarre. Punto di non ritorno, o base da cui ripartire?
Con un saldo così, il Padreterno rimetterà sicuramente tutto.
Tweet