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R Recensione

6,5/10

Minsk

The Crash And The Draw

Continuare ad ascoltare i Minsk, nel 2015, è un anacronismo dorato, un lusso per die-hard fans e pochi altri. Gratificare d’attenzione rinnovata una band ancora giovane ma non certo giovanissima, le più note tra le seconde leve del post metal americano, smarritesi e scioltesi dopo il buon “With Echoes In The Movement Of Stone”, poi riformatesi e tornate infine sulla scena con un imponente opus di 75 minuti (!), è insieme atto d’amore e di incoscienza. Come il romanzo per Bachtin, anche la parola di Sanford Parker e compagni si nutre, inevitabilmente, di passato: proprio ed altrui. Chi dovesse incappare (casualmente?) in “The Crash And The Draw”, senza aver mai sentito nulla in precedenza del sestetto di Peoria, Illinois, liquiderà il disco con la malcelata irritazione di chi riconosce, nell’oggetto di fronte, un resistente monumento aere perennius all’âge d’or di un suono ormai lontano dalla tradizione, aperto a (e contaminato da) altri linguaggi, a tratti raffinata parodia intellettuale di sé stesso.

Qui, invece, no: ci si prende terribilmente sul serio. Si guardi alle elaborate tinte della cover, ai magniloquenti titoli dei brani, ai brani stessi (due mastodonti in apertura e chiusura, una suite in quattro movimenti nel mezzo, una densità materica generale impressionante: un vero e proprio spettacolo teatrale). Se lo step precedente suggeriva un autocosciente sollevamento, “The Crash And The Draw” è la Restaurazione tradotta in note. Comprensibile che l’insieme di queste caratteristiche possa scoraggiare molti. D’altro canto, per quanto complessa possa essere l’opera, chi abbia anche una minima dimestichezza con il genere di riferimento non faticherà a riconoscere gradualmente, lungo l’ascolto (da espletarsi rigorosamente in notturna e in solitaria: l’antidoto ideale a quest’estate infinita ed infernale), l’intricato sistema di rimandi qui e lì disseminati. Frusto e telefonato, ad esempio, è quello ai Neurosis: ma che altro paragone suggerire, al calare delle chitarre di “To The Initiate” (produzione e missaggio strepitosi), nel loro nervoso e ferino scattare black, nella loro perfetta, pomposa ciclicità doom? Ogni fase potrebbe essere scorporata, suggerendo, tra gli altri, omaggi ai Bosse-de-nage (l’intelligente intersecarsi di tam tam, assoluti protagonisti anche in “To You There Is No End”, e blast) e agli YOB: allora, però, si palesa all’orizzonte il rischio del listone autoreferenziale. Lo Steve Von Till dei Minsk o, per meglio dire, la sua versione prog, cervellotica, è Christopher Bennett, un riffmaker in grado di spezzare la soavità armonica à la Callisto (anche il neo romanticismo dei Palms è tenuto a vista d’occhio) di “The Way Is Through” con un break acidissimo, dissolto e riformato attorno ad un fascio di fraseggi tooliani (un’ispirazione costante: non vi sono dubbi che il poderoso ruggito di dodici secondi, degna chiusura alla violenza soverchia, distonica di “Within And Without” segua l’esempio di “The Grudge”).

Crediamo di aver reso l’idea generale del disco, artisticamente degnissimo e suonato divinamente, ma ermeticamente chiuso dall’interno e pervicacemente ancorato al proprio fondale. Tutto inizia, prosegue e si conclude: tutto nasce, si evolve e muore. Parziale eccezione è “To The Garish Remembrance Of Failure”, i cui orientalismi per sei corde sembrano ritagliarsi un personale spazio-tempo non lineare senza, però, la convinzione e la costanza necessaria per portare a termine l’impresa. Spenderemo piuttosto due parole sulla sopraccitata suite, “Onward Procession”. “These Longest Of Days”, per tonalità chitarristica e costruzione ad accumulo, sembra uscita da “Vertikal” dei Cult Of Luna (splendido l’assolo). “The Soil Calls” serra poderosamente le fila, decelerando e sbandando sludge, arrivando ad un passo al rumore bianco, prima di riconvertirsi nelle ovattate, ambientali clean guitars di “The Blue Hour” (ma con un sonnecchiante, mefistofelico raddoppio elettrico-elettronico a covare sotto la cenere). “Return, The Heir” è, forse, una chiusura un po’ scontata, un’ascensione post metal come forse la scriverebbero The Ocean: tanto liberatoria quanto prevedibile, calcolata, meccanica.  

La previsione è che i Minsk non attraverseranno mai le profonde crisi identitarie che, a loro tempo, afflissero i Pelican, né si sacrificheranno per gusti e mode passeggere. La certezza è che non potranno mai essere diversi da ciò che sono ora.

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