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R Recensione

6,5/10

Dysrhythmia

Test Of Submission

A ben pensarci, è come assistere ad un’eruzione. Un fenomeno terribile, in sé e di per sé pericoloso, ma estremamente affascinante, spettacolare, dal primo tremore all’ultima vampata. Poi, la lava si addensa, raggrumandosi. Si spegne. Si immobilizza. Si decompone. Ridiventa serbatoio di sostanze chimiche, nutrimento per la terra martoriata, che ringrazia. Un processo lento, non pericoloso, non affascinante, non spettacolare: semplicemente inevitabile, per certi versi necessario. I Dysrhythmia, che hanno posto le proprie fondamenta d’esistere alla base dell’instabile caldera del tech-core, una volta saltati in aria sono dovuti atterrare, su di una base solida, non più semovente. Non è certo colpa loro, se l’area cui fanno concettualmente riferimento è andata declinando, dilaniata al proprio interno da estremismi contrapposti (il compromesso e l’eutrofizzazione, la canonizzazione del tecnicismo in itself e lo snaturamento del suono originario, sbriciolato in melodie inconsistenti). Anzi. Dopo il capolavoro “Barriers And Passengers” (2006), finissima grana metallica tesa da bordate di astrattismo fusion jazz su precipizi math – che detto così sembra pappa strasentita, ma è sufficiente l’ascolto per ricredersi –, il trio statunitense, già per lo step successivo, aveva scientemente evitato di riproporre la formula, caricando “Psychic Maps” (2009) di clangori industriali e pesanti cortine telluriche. Non pago dell’azzardo, riuscito, oggi “Test Of Submission”, primo frutto distribuito da Profound Lore e non da Relapse, svolta ancora.

La devastante Warr guitar di Colin Marston (uno dei motori, tra gli altri nomi, dei pessimi Behold… The Arctopus, ritornati recentemente in azione) prende per mano le complicate geometrie del gruppo in una danza che, di concettualmente estremo, ha in realtà poco, specialmente se paragonato con i capitoli precedenti. Sembra semplice rinfrescare una formula che fa del camaleontismo il proprio marchio di fabbrica, ma gli innesti studiati spesso graffiano debolmente la superficie, aggiunte discrete che quasi stonano in una sempre più stanca pantomima dello stampo originale. Il lavoro dei Dysrhythmia, in questa accezione, pur rispettando sostanzialmente i parametri distintivi di partenza, introduce nuovi e più profondi cambiamenti. Evidentissimi, ad esempio, i lampi melodici che illuminano le piaghe futuristiche di “In Secrecy”, prog crimsoniano subappaltato a purpuree fiondate post-core (livello tecnico ed atmosferico, s’intende, con elaborata scansione chitarristica in ripiego), o la felpata scalata su armonici ed epiche catene di arpeggi, con maestosi collassi piramidali, di “Running Towards The End”. Non è tuttavia necessario appellarsi a rivolgimenti così manifesti, perché in tutto il dipanarsi del disco si avverte un nuovo approccio sistematico, più viscerale, per quanto lo possano permettere equilibri così gelidi e formali: gli arabeschi arzigogolati di una title-track suonata sul filo del controtempo, con molle esplosive che saltano al minimo contatto, appaiono quindi fuori contesto e male integrati.

Potrebbe essere interessante capire come i Dysrhythmia si potrebbero ulteriormente evolvere, seguendo la strada tracciata da “Test Of Submission”, in avvicinamento critico e non compromissorio ad un superiore, omnicomprensivo impianto armonico. Appurato, senza troppo scoramento, che difficilmente tornerà in vita il gruppo di “Barriers And Passengers”, non rimane che appuntare come il livello di songwriting, da sempre punto di forza del trio americano, si stia in realtà leggermente usurando (rispetto a “Psychic Maps” v’è stato certamente un calo), messo alla prova da troppe giravolte stilistiche e bisognoso di un relativo centro di stabilità. Lo sludge atmosferico, frastagliato, cosmico che pervade il segmento centrale di “The Line Always Snaps” reindirizza il brano verso tracciati di sicuro interesse, lontano da una partenza in sordina e a lenta carburazione. Bellissime le intuizioni ritmiche di una “Like Chameleons”, che spedisce l’hard rock nella macina del math-core, meno il prog-core ipercinetico di “In The Spirit Of Catastrophe” (con tamburi à la Lombardo e tempestose aperture thrash) ed il pesante distillato fusion metal di “In Consequence”, con chiosa astrale che cerca, senza troppa fortuna, i Callisto nei Cynic.

Da ascoltare, come sempre, in adorazione del disastro imminente. Come una nuova, gigantesca eruzione…

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