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5,5/10

John Garcia and the Band Of Gold

John Garcia and the Band Of Gold

Se il nostro mondo venisse risucchiato da un wormhole (prospettiva persino beneaugurante, visti i tempi che corrono), l’incrollabile coerenza etica e deontologica di un John Garcia potrebbe facilmente essere assunta a modello di riferimento, un paradigma mimetico di un certo modo d’intendere la musica – solidamente conservatore, quasi del tutto impermeabile all’avvicendarsi delle mode e delle fazioni – che agli occhi dei romantici potrebbe persino sembrare eroico. Non a quelli che ben sanno come di nostalgia non si possa campare a vita, però, e nemmeno a chi – scorrendo col dito le già obsolete pagine della Retromania reynoldsiana – comprendono che il rock dei nostri giorni, per sopravvivere alla contemporaneità, deve tornare ad occupare quelle nicchie di controcultura da tempo tradite per la vocazione maggioritaria (oggi definitivamente perduta). Inutile aggiungere che il recente percorso di Garcia – grossomodo l’ultimo ventennio, tra Unida, Slo Burn, Vista Chino, prove soliste e questa vecchia nuova Band Of Gold, sostanzialmente lo stesso manipolo di musicisti accreditati nel precedente “The Coyote Who Spoke In Tongues” – non si pone né dall’una, né dall’altra parte.

Che si faccia finta di essere ancora nella prima metà degli anni ’90 o si accetti il 2019 per quello che è, “John Garcia and the Band Of Gold” suona pur sempre come disco di genere che abbia rinunciato ad ogni sovrastruttura concettuale e che, anzi, quasi per contraccolpo, abbia scelto di semplificare e standardizzare ulteriormente la propria elementare sintassi. Risultato: undici pezzi facili (giusto per sgraffignare la citazione ad un amico di sempre), fin troppo facili, scritti con approssimazione e interpretati senza guizzo alcuno. C’è la strumentale d’inizio tracklist, un abusatissimo decollo space-stoner dall’irruenza punk (“Space Vato”): il singolone hard-blues costruito su uno stereotipato rifferama crunch (“Jim’s Whiskers”) e quello che non si concede nemmeno il piacere dell’impatto epidermico (“Chicken Delight” è davvero bruttina); il brano da singalong (“Lillianna”), la secca marcia avvelenata da scorie psichedeliche (“Apache Junction”) e la volubile invocazione desertica (“Softer Side”, brano migliore del disco). Inutile persino attendersi che sia servito a qualcosa il postremo esorcismo del precedente “The Coyote Who Spoke In Tongues”: quasi beffardamente, anzi, tre brani di quella tracklist sono qui ripresi in versione elettrica (il rodeo di “Kentucky II” è la nuova “Give Me 250 ML”, le saturazioni fuzz di “Don’t Even Think About It” rivedono le ombreggiature grungey di “The Hollingsworth Session”, “Cheyletiella” infonde uno spirito selvaggio nelle vene di “Kylie”).

È un’irrilevanza assoluta, che colpisce e a tratti atterrisce: come Sisifo fu condannato a trascinare su per la cima di un monte un masso che puntualmente ridiscendeva a valle, così Garcia continua a rimanere intrappolato da decenni nella stessa idea di disco. Non è la prima volta che lo si nota, ma il sortilegio non pare destinato a rompersi nel breve periodo.

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