Stoned Jesus
The Harvest
Se, magari incuriositi da una copertina tanto naïf quanto efficace, circumnavigherete gli oceani virtuali per sapere qualcosa in più su The Harvest, terzo disco degli Stoned Jesus, vi imbatterete in una cospicua percentuale di recensioni decisamente freddine, quando non esplicitamente negative. Cercando un tratto in comune tra questi giudizi, si evince che il busillis di questa presa di posizione sta in un fraintendimento originario del percorso e dellevoluzione stilistica del power trio ucraino: ovvero, lassunzione che Igor Sidorenko e compagni siano stati battezzati sotto il segno dello stoner (si porta come prova, a tal proposito, lesordio First Communion, 2010) e in seguito, col passare degli anni e dei full length (lo snodo, il successivo Seven Thunders Roar, 2012, la loro consacrazione critica e commerciale), abbiano sfrondato, con foga progressivamente più zelante, tutte quelle minutaglie e propaggini psichedeliche che ai fini dellascolto e della fruizione disimpegnati richiedevano un quid superiore di immedesimazione.
Non è così. Si potrebbe cavillare addirittura sulla reale appartenenza degli Stoned Jesus al filotto doom/stoner contemporaneo: è acclarato che certi riff, certe movenze, certe ispirazioni si sono smarcati, già da molto tempo, dallegida di Palm Beach (arrivando addirittura fino a Reykjavik, come per i Brain Police), ma non bastano un downtuning, un distorsore appena più sporco, una moderata tensione alla jam per fare di un gradevole trio hard rock un ottimo trio stoner. Come gran parte delle formazioni neo-hard rock, anche gli Stoned Jesus presentano un suono compatto ed univoco nellesecuzione, ma sottilmente elaborato allascolto: cè sicuramente dello stoner, ci si intenda (ed in questo sì, allora, parleremo di percentuali superiori in passato), ma così come cè del blues, cè del prog (specialmente in certe alternanze acustico/elettriche e nella predilezione alla strutturazione verticale dei brani: qui la seconda metà di Silkworm Confessions, inizialmente condotta tra Fu Manchu e Light Pupil Dilate, parla da sola), cè del nudo e crudo rnr e mai ci verrebbe in mente di definire The Harvest un disco solo blues, solo prog, solo rnr.
Hard rock, nella sua polisemia, metta daccordo tutti, allora. Da questa angolatura è impossibile non farsi piacere il micidiale uno-due dapertura: lessenziale Here Come The Robots ripercorre tutte le fasi di transizione fra i tardi Kyuss di And The Circus Leaves Town e i primi QOTSA del s/t, Wound ci piazza la zampa delefante dei Black Stone Cherry (wah e bourbon a Kyïv: que espectáculo!). Nel mucchio ci sarebbe posto anche per il mid, invero un po tamarro, di YFS, dove ogni riff assume però un proprio ben definito contorno: si è lontani dallaffastellamento di singole sezioni dei brani più dilatati (la noiosa Black Church si trascina a parodiare i Melvins di Ozma per otto minuti, prima di inventarsi un requiem per organetto à la Black Widow che sembra la classica soluzione-non soluzione per allungare il brodo) o dalle cadenzate decalcomanie Pentagram di Rituals Of The Sun (episodio non brutto, ma vagamente banale).
Qui, poi, dipende dalla sensibilità del singolo ascoltatore. Se si rientra nella casistica di cui sopra, di chi aveva preso gli Stoned Jesus per le comete salvifiche venute dallOriente a redimere le pentatoniche senza nerbo dellOccidente in declino, The Harvest apparirà come un fallimento. Quanto a noi, lo prendiamo per quello che è e che vuole essere: uno spumeggiante platter, ben suonato e ben costruito, pronto per far vibrare le casse dello stereo.
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