V Video

R Recensione

6,5/10

Stoned Jesus

The Harvest

Se, magari incuriositi da una copertina tanto naïf quanto efficace, circumnavigherete gli oceani virtuali per sapere qualcosa in più su “The Harvest”, terzo disco degli Stoned Jesus, vi imbatterete in una cospicua percentuale di recensioni decisamente freddine, quando non esplicitamente negative. Cercando un tratto in comune tra questi giudizi, si evince che il busillis di questa presa di posizione sta in un fraintendimento originario del percorso e dell’evoluzione stilistica del power trio ucraino: ovvero, l’assunzione che Igor Sidorenko e compagni siano stati battezzati sotto il segno dello stoner (si porta come prova, a tal proposito, l’esordio “First Communion”, 2010) e in seguito, col passare degli anni e dei full length (lo snodo, il successivo “Seven Thunders Roar”, 2012, la loro consacrazione critica e commerciale), abbiano sfrondato, con foga progressivamente più zelante, tutte quelle minutaglie e propaggini psichedeliche che – ai fini dell’ascolto e della fruizione disimpegnati – richiedevano un quid superiore di immedesimazione.

Non è così. Si potrebbe cavillare addirittura sulla reale appartenenza degli Stoned Jesus al filotto doom/stoner contemporaneo: è acclarato che certi riff, certe movenze, certe ispirazioni si sono smarcati, già da molto tempo, dall’egida di Palm Beach (arrivando addirittura fino a Reykjavik, come per i Brain Police), ma non bastano un downtuning, un distorsore appena più sporco, una moderata tensione alla jam per fare di un gradevole trio hard rock un ottimo trio stoner. Come gran parte delle formazioni neo-hard rock, anche gli Stoned Jesus presentano un suono compatto ed univoco nell’esecuzione, ma sottilmente elaborato all’ascolto: c’è sicuramente dello stoner, ci si intenda (ed in questo sì, allora, parleremo di percentuali superiori in passato), ma così come c’è del blues, c’è del prog (specialmente in certe alternanze acustico/elettriche e nella predilezione alla strutturazione verticale dei brani: qui la seconda metà di “Silkworm Confessions”, inizialmente condotta tra Fu Manchu e Light Pupil Dilate, parla da sola), c’è del nudo e crudo r’n’r – e mai ci verrebbe in mente di definire “The Harvest” un disco solo blues, solo prog, solo r’n’r.

Hard rock, nella sua polisemia, metta d’accordo tutti, allora. Da questa angolatura è impossibile non farsi piacere il micidiale uno-due d’apertura: l’essenziale “Here Come The Robots” ripercorre tutte le fasi di transizione fra i tardi Kyuss di “…And The Circus Leaves Town” e i primi QOTSA del s/t, “Wound” ci piazza la zampa d’elefante dei Black Stone Cherry (wah e bourbon a Kyïv: que espectáculo!). Nel mucchio ci sarebbe posto anche per il mid, invero un po’ tamarro, di “YFS”, dove ogni riff assume però un proprio ben definito contorno: si è lontani dall’affastellamento di singole sezioni dei brani più dilatati (la noiosa “Black Church” si trascina a parodiare i Melvins di “Ozma” per otto minuti, prima di inventarsi un requiem per organetto à la Black Widow che sembra la classica soluzione-non soluzione per allungare il brodo) o dalle cadenzate decalcomanie Pentagram di “Rituals Of The Sun” (episodio non brutto, ma vagamente banale).

Qui, poi, dipende dalla sensibilità del singolo ascoltatore. Se si rientra nella casistica di cui sopra, di chi aveva preso gli Stoned Jesus per le comete salvifiche venute dall’Oriente a redimere le pentatoniche senza nerbo dell’Occidente in declino, “The Harvest” apparirà come un fallimento. Quanto a noi, lo prendiamo per quello che è e che vuole essere: uno spumeggiante platter, ben suonato e ben costruito, pronto per far vibrare le casse dello stereo.

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 4 voti.
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B-B-B 7,5/10
Lelling 7,5/10

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