V Video

R Recensione

4/10

Vista Chino

Peace

Chi ha tempo non perda tempo. Introduciamo subito il discorso, in medias res. Da quanto si legge in giro, sembrerebbe che, dopo lo hiatus dei Kyuss, John Garcia si sia ritrovato o, per meglio dire, sia stato scaraventato in una nuova realtà improvvisamente disoccupato, disperato, nostalgico. Eminente falsità, è chiaro a tutti, dato che la voce di San Manuel ha avuto modo di proseguire in seguito il suo percorso musicale, zigzagando tra poco fortunate esperienze – le meteore Slo Burn, i fantozziani Unida, gli irrilevanti Hermano. Dunque, non è perché Josh Homme ha fatto il gran colpo, ed è stato capace di far evolvere coerentemente il terremoto kyussiano nelle ossessioni robotiche dei Queens Of The Stone Age (eclissando di prepotenza l'amato odiato compagno e collega), che di Garcia si possa rivendicare con forza una nuova, rassicurante verginità artistica. V'è colpa, da parte di quest'ultimo, ed evidente disparità di talento tra i due pilastri del gruppo fondatore dello stoner rock, se l'uno è assurto a grande popolarità, e l'altro è rimasto a lungo segreto – geloso e sbertucciato – di certo underground.

Non è, peraltro, il solo rilievo che impressiona. Su “Peace”, primo disco di quelli che si chiamano ora Vista Chino, ma furono sino a qualche tempo fa i Kyuss Lives! (tre quarti della formazione originale, più Bruno Fevery alla sei corde come rimpiazzo fedele di Homme, in un'ingessata autocelebrazione dei fasti trascorsi, confezionata ad uso e consumo di ego feriti), le divisioni si sprecano: bel disco, pessimo disco, disco insapore, più perplessità che entusiasmi, più entusiasmi che perplessità. Un solo aggettivo lega, come collante, le varie critiche: vecchio. Vecchio in un'accezione a tratti romantica ma, nella stragrande maggioranza dei casi, sinonimo di un atteggiamento paradigmatico, quello di un manipolo di musicisti incapaci di metabolizzare il tempo che passa. Non basta recuperare i riff, le atmosfere, le canzoni del 1993 per convincersi (e convincerci) di essere ancora in quel 1993: non basta suonare stoner per sentirlo, lo stoner. È come erigere un albero di Natale nel centro di Johannesburg, a pieno agosto, e pretendere che nevichi.

Da parte mia, preferisco andare oltre. Non so se “Peace” possa essere considerato brutto. Di sicuro è vecchio. Ma dietro al “mio” vecchio si nasconde un ulteriore giudizio che tutti, chi più, chi meno, hanno ricusato di formulare, forse per paura della sua radicalità. “Peace” è un disco falso. Falso come chi, vent'anni dopo “Blues For The Red Sun”, in aperta contraddizione con i fallimentari step successivi, spera di riproporre invariata la stessa formula e farla franca, senza che nessuno si accorga di nulla: e di tutto ciò che questi vent'anni ci hanno regalato, e della tradizione cementata ormai ovunque. Falso come chi punta ad occhi chiusi sul cavallo vincente, conscio di giocare in casa, e chiama tutto ciò “nostalgia”. Falso come chi crede che i riff di Josh Homme siano questione di note e ritmo, e non di mood o di interpretazione – un buco nell'acqua, ma non per colpa sua, la prova di Fevery. Si potrebbe scegliere di chiudere un occhio, e farlo passare come peccato di ingenuità, scegliendo di ignorare deliberatamente tutta una carriera che parla di professionisti del mestiere, e non di novellini alle prime armi.

Un confronto, in chiusura. Si prenda il pur imperfetto “...Like Clockwork” e il centripeto anelito all'autoperfezionamento che ha spinto Josh Homme a comporre un lavoro fuori dai propri schemi, ma certamente coraggioso e sicuramente riuscito. Lontanissimo dal concetto di “coraggio”, “Peace” non si regge in piedi nemmeno strutturalmente, con “Sweet Remain” che rallenta ad hocHurricane”, “Adara” che sovrappone a comando orientalismi e guizzanti chitarre acustiche, “Planets 1 & 2” che parafrasa (male) “Green Machine” prima di lanciarsi a capofitto verso un finale Monster Magnet standardizzato, “Barcelonian” vagamente Spiritual Beggars (gli ultimi) e i tredici minuti di “Acidize? The Gambling Moose” allungati oltre ogni giustificazione plausibile – il passo dinoccolato della chiusura, Atomic Bitchwax al massimo della loro tensione funk, non riscatta la prima parte.

Non v'è passione, non v'è onestà, non v'è brillantezza. Se il modesto riff di “Dargona Dragona”, annegato in un fuzz scolastico, è l'unica cosa in grado di rimanere in piedi, tanto vale seppellire il progetto nei rimpianti. E nelle ammissioni. Di colpevolezza.

V Voti

Voto degli utenti: 4,5/10 in media su 1 voto.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
zagor 4,5/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

ThirdEye alle 21:47 del 23 settembre 2013 ha scritto:

Immaginavo. Odio queste rimpatriate fuori tempo massimo. I Kyuss erano altri tempi, altra musica, altro tutto...Non voglio nemmeno ascoltarlo per non rovinarmi i sacri ricordi di tanta grazia passata.

zagor (ha votato 4,5 questo disco) alle 10:08 del 25 settembre 2013 ha scritto:

scaricato, sentito e cestinato. un disco inutile.

fabfabfab alle 18:35 del 27 settembre 2013 ha scritto:

A 'sto punto non lo ascolto nemmeno. Peccato, i Kyuss erano davvero grandi.