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R Recensione

7/10

Nubya Garcia

Source

Era solo questione di tempo prima che prendesse corpo il primo full length solista di Nubya Garcia, l’ennesimo tassello di lusso che impreziosisce il puzzle di un 2020 d’oro per il jazz europeo: una formalità, verrebbe da aggiungere, visto il ruolo già assolutamente preponderante della giovane sassofonista britannica in alcuni dei più recenti e celebrati act della scena jazz londinese contemporanea (Maisha e Nérija in testa, per tacere del reticolo fittissimo di collaborazioni sparse ovunque Oltremanica e Oltreoceano nell’espansa galassia BAM): se non fosse che le formalità ben di rado si attendono con la spasmodica curiosità con la quale era atteso al varco “Source”, naturale evoluzione – anche nella formazione a quattro, con la sola novità di Sam Jones come rimpiazzo di Femi Koleoso dietro le pelli – del percorso intrapreso con i precedenti EP “Nubya’s 5ive” (2017) e “When We Are” (2018). Aspettative del tutto giustificate, almeno ad assaporare i due singoli anticipatori, un saggio d’eclettismo che – in scala quantitativamente minore – non può non riportare alla mente l’ambizione di jazz totale del Kamasi di “The Epic” (2015): da un lato “Pace”, dinamico e sinuoso post-bop modulato su una semplice frase a rientro, che esalta gli esplosivi crescendo del solismo di Nubya e il tentacolare contrappunto pianistico di Joe Armon-Jones; dall’altro la lunga title track, un dub corale per tre voci femminili (quote rosa mica da ridere: Cassie Kinoshi, Richie Seivwright e Sheila Maurice-Grey, ovvero l’ossatura combinata di Nérija, Kokoroko e SEED Ensemble) le cui esplorazioni melodiche oscillano tra l’onnipresente Coltrane e le isole sonore di Ahmad Jamal.

Source”, come da titolo e da tradizione BAM, è un’ode in movimento alle radici: quelle geografiche, anzitutto, ataviche calamite culturali che mai cessano di esercitare la loro influenza sull’individuo (esemplare l’incursione ritmico-misterica di “La Cumbia Me Está Llamando”, scritta con il trio colombiano al femminile La Perla), ma anche quelle di genere (la minimale serpentina reggae di “Stand With Each Other”, in cui ancora una volta si insinuano i contrappunti vocali di Kinoshi, Seivwright e Maurice-Grey, è un peana fonosimbolico al femminino) e, più latamente, stilistiche (le dinamiche scattanti del jazz-hop di “The Message Continues”, con un solo di Armon-Jones al piano elettrico che pare uscito da “IV” dei BADBADNOTGOOD, la rendono quasi un negativo della washingtoniana “Change Of The Guard”). L’insieme omogeneo di tutte queste variabili ha fatto già urlare al miracolo Pitchfork: ed in effetti, per essere bello e godibile, “Source” bello e godibile lo è trasversalmente, con un picco particolare negli ultimissimi minuti (l’umbratile miniatura soul-jazz di “Boundless Beings”, interpretata ecletticamente da Akenya Seymour, è splendida). Quello che non spinge ancora a dichiarare il capolavoro è, nella sostanza, la mancanza di uno spunto davvero sconquassante, un’invenzione che s’imponga da subito sul resto e si faccia ricordare a lungo. Potrebbe esserlo l’elaborata head tortile di “Inner Game”, che raggiunge addirittura altezze astral prima di ripiegare su bizantinismi hancockiani poco in tema: potrebbe esserlo anche la meditativa sonata coolTogether Is A Beautiful Place To Be” (in grande spolvero il basso di Daniel Casimir), che paga tuttavia un’eccessiva affettazione nell’esecuzione; potrebbe infine esserlo l’andamento incalzante e vagamente distonico di “Before Us: In Demerara & Caura” (echi sparsi del magnifico “An UnRuly Manifesto” di James Brandon Lewis dell’anno scorso), che però dura almeno un paio di minuti di troppo.

La risposta è più semplice: quello che cerchiamo, semplicemente, ancora non c’è. Una certezza: arriverà. Nel mentre rimane un disco, “Source”, da ascoltare e riascoltare.

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