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R Recensione

6/10

John Garcia

The Coyote Who Spoke In Tongues

John Garcia, grande vecchio perdente in un mondo che stigmatizza le sconfitte e incentiva alla competizione per la competizione, è sempre stato – brutalmente, persino spietatamente – onesto con sé stesso. In occasione dell’omonimo disco solista di qualche anno fa confessava di sentirsi stanco, mortalmente stanco: la prostrazione psicofisica di chi ha attraversato migliaia di tempeste, riemergendone puntualmente con l’aura del sopravvissuto. Oggi che la ciurma si è assottigliata fino a scomparire, l’ex voce dei Kyuss non esita a definire il secondo “The Coyote Who Spoke In Tongues” nientemeno che il disco più importante della sua tormentata carriera. L’investitura non è priva di senso, se si considera che, all’indomani dello scioglimento della band madre, il curriculum dell’uomo di San Manuel (quarantasette anni compiuti da qualche giorno: non proprio un novellino) è costellato di inciampi, cadute, infortuni, insuccessi: tant’è che – tra le sfortunate avventure con Slo Burn e Unida, la sciagurata meteora dei Vista Chino e il contentino museale degli Zun – il tempo per redimersi e le energie per farlo sono ormai contatissimi.

Il recupero di una genuina credibilità artistica passa ancora e sempre per la dissepoltura dei risultati più brillanti del proprio passato e per il loro adattamento in nuova veste. Così anche “The Coyote Who Spoke In Tongues”, che sceglie di denudarsi di ogni distorsione per abbracciare un evocativo minimalismo acustico, infila di sguincio, tra un inedito e un’alternate take, quattro lussuosi classici kyussiani. Impressionante è la trasformazione di “Gardenia” (da “Welcome To Sky Valley”, 1994), il cui mortifero e ipercompresso riff post-sabbathiano – una delle migliori creazioni del primo Josh Homme – si disgrega in una girandola di arpeggi decadenti, un’essenziale ed emozionante ballata desertica senza nulla attorno. Marcatamente più bluesy e sincopata, ma in definitiva non troppo lontana dall’originale, è l’omaggio a “Space Cadet”, proveniente dallo stesso disco. Dal fin troppo sottovalutato “…And The Circus Leaves Town” (canto del cigno del 1995) viene ripescata una “El Rodeo” non meno che spettacolare, un coup de théâtre che si nasconde tra velature d’archi e lucenti armature chitarristiche. Classico per classico, la rappresentante dell’immarcescibile “Blues For The Red Sun” (1992) non poteva non essere che “Green Machine”: qui, però, a dispetto del tocco sublime e magnetico sfoderato nelle strofe dalla mano di Ehren Groban, i risultati sono più modesti.

I preparatissimi musicisti di cui si circonda Garcia (oltre a Groban, ci sono Mike Pygmie al basso e Greg Saenz alle percussioni) ed una prova vocale tra le migliori dell’ultimo periodo (per certi versi sorprendente, specie se paragonata agli abissi toccati nei Vista Chino) permettono ai nuovi brani di uniformarsi al mood generale del disco e di suonare, a loro modo, come vecchi anthem. Ad apparire fuori contesto è, forse, proprio il singolo “Kylie”, a cui non bastano le intense meditazioni cajun della seconda metà per bilanciare il chiassoso ed opulento ottovolante roots rock d’apertura (poca cosa, a dire il vero). Il canale con l’esordio solista (esclusi gli sparuti sbuffi elettrici della registrazione live di “The Blvd”) viene garantito da “Argleben II”, che riprende – in un crescendo eroico e un po’ sopra le righe – il ritornello dell’originaria “Argleben”. “Give Me 250 ML” (riproposta a fine scaletta anche in una convincente versione dal vivo) è un energico, grezzo blues old style, un pezzo che con qualche rudezza in più potrebbe appartenere addirittura al songbook di King Buzzo. Con “The Hollingsworth Session”, infine, Garcia si regala quell’intenso saliscendi acoustic grunge che suona come genuino omaggio ad una generazione, la sua, flagellata dagli eventi e dalle intemperie: un monito impregnato da un’inquietudine oscura e strisciante, liberata interamente solo sul finale con gli intarsi tribali della strumentale “Court Order”.

Sebbene “The Coyote Who Spoke In Tongues” sia di gran lunga il suo disco migliore da almeno dieci anni a questa parte, il problema di fondo del songwriting di Garcia rimane lo stesso: l’incapacità di superare la sua collocazione storica e di parlare ad un pubblico più ampio. Nell’anno dell’ascesa dei Queens Of The Stone Age verso paradigmi stilistici in grado di evitare la ghettizzazione di genere, sfortunatamente, si tratta di una debolezza di non poco conto.

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zagor alle 0:07 del 14 settembre 2017 ha scritto:

Wow grande recensione! Garcia sempre nei nostri cuori, il piu' grande sciamano stoner, anche se le sue esperienze post Kyuss come dici tu sono state un po' contradditorie. Ti è piaciuto il nuovo dei QOTSA? Per me abbastanza fiacco, salvo giusto 3-4 brani con il tiro dei bei tempi, ma per il resto Josh si è ormai infiacchiato.

Marco_Biasio, autore, alle 14:52 del 14 settembre 2017 ha scritto:

Grazie del passaggio e dei complimenti, zagor! Il nuovo QOTSA l'ho ascoltato ancora troppo poco e troppo distrattamente per poter arrivare a delle conclusioni anche minime. Per ora comunque gli preferisco di molto ...Like Clockwork. Più che un problema di tiro (è da qualche anno ormai che Homme ha deciso di provare a fare altro) mi disturbano un po' i suoni, che secondo me non calzano benissimo al loro songwriting. Comunque di tempo per approfondire ce n'è!