John Garcia
The Coyote Who Spoke In Tongues
John Garcia, grande vecchio perdente in un mondo che stigmatizza le sconfitte e incentiva alla competizione per la competizione, è sempre stato brutalmente, persino spietatamente onesto con sé stesso. In occasione dellomonimo disco solista di qualche anno fa confessava di sentirsi stanco, mortalmente stanco: la prostrazione psicofisica di chi ha attraversato migliaia di tempeste, riemergendone puntualmente con laura del sopravvissuto. Oggi che la ciurma si è assottigliata fino a scomparire, lex voce dei Kyuss non esita a definire il secondo The Coyote Who Spoke In Tongues nientemeno che il disco più importante della sua tormentata carriera. Linvestitura non è priva di senso, se si considera che, allindomani dello scioglimento della band madre, il curriculum delluomo di San Manuel (quarantasette anni compiuti da qualche giorno: non proprio un novellino) è costellato di inciampi, cadute, infortuni, insuccessi: tantè che tra le sfortunate avventure con Slo Burn e Unida, la sciagurata meteora dei Vista Chino e il contentino museale degli Zun il tempo per redimersi e le energie per farlo sono ormai contatissimi.
Il recupero di una genuina credibilità artistica passa ancora e sempre per la dissepoltura dei risultati più brillanti del proprio passato e per il loro adattamento in nuova veste. Così anche The Coyote Who Spoke In Tongues, che sceglie di denudarsi di ogni distorsione per abbracciare un evocativo minimalismo acustico, infila di sguincio, tra un inedito e unalternate take, quattro lussuosi classici kyussiani. Impressionante è la trasformazione di Gardenia (da Welcome To Sky Valley, 1994), il cui mortifero e ipercompresso riff post-sabbathiano una delle migliori creazioni del primo Josh Homme si disgrega in una girandola di arpeggi decadenti, unessenziale ed emozionante ballata desertica senza nulla attorno. Marcatamente più bluesy e sincopata, ma in definitiva non troppo lontana dalloriginale, è lomaggio a Space Cadet, proveniente dallo stesso disco. Dal fin troppo sottovalutato And The Circus Leaves Town (canto del cigno del 1995) viene ripescata una El Rodeo non meno che spettacolare, un coup de théâtre che si nasconde tra velature darchi e lucenti armature chitarristiche. Classico per classico, la rappresentante dellimmarcescibile Blues For The Red Sun (1992) non poteva non essere che Green Machine: qui, però, a dispetto del tocco sublime e magnetico sfoderato nelle strofe dalla mano di Ehren Groban, i risultati sono più modesti.
I preparatissimi musicisti di cui si circonda Garcia (oltre a Groban, ci sono Mike Pygmie al basso e Greg Saenz alle percussioni) ed una prova vocale tra le migliori dellultimo periodo (per certi versi sorprendente, specie se paragonata agli abissi toccati nei Vista Chino) permettono ai nuovi brani di uniformarsi al mood generale del disco e di suonare, a loro modo, come vecchi anthem. Ad apparire fuori contesto è, forse, proprio il singolo Kylie, a cui non bastano le intense meditazioni cajun della seconda metà per bilanciare il chiassoso ed opulento ottovolante roots rock dapertura (poca cosa, a dire il vero). Il canale con lesordio solista (esclusi gli sparuti sbuffi elettrici della registrazione live di The Blvd) viene garantito da Argleben II, che riprende in un crescendo eroico e un po sopra le righe il ritornello delloriginaria Argleben. Give Me 250 ML (riproposta a fine scaletta anche in una convincente versione dal vivo) è un energico, grezzo blues old style, un pezzo che con qualche rudezza in più potrebbe appartenere addirittura al songbook di King Buzzo. Con The Hollingsworth Session, infine, Garcia si regala quellintenso saliscendi acoustic grunge che suona come genuino omaggio ad una generazione, la sua, flagellata dagli eventi e dalle intemperie: un monito impregnato da uninquietudine oscura e strisciante, liberata interamente solo sul finale con gli intarsi tribali della strumentale Court Order.
Sebbene The Coyote Who Spoke In Tongues sia di gran lunga il suo disco migliore da almeno dieci anni a questa parte, il problema di fondo del songwriting di Garcia rimane lo stesso: lincapacità di superare la sua collocazione storica e di parlare ad un pubblico più ampio. Nellanno dellascesa dei Queens Of The Stone Age verso paradigmi stilistici in grado di evitare la ghettizzazione di genere, sfortunatamente, si tratta di una debolezza di non poco conto.
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