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R Recensione

6,5/10

Pontiak

Dialectic Of Ignorance

Anche il suono, come il linguaggio, può dirsi organizzato attorno a poche, elementari metafore ricolme di senso. Quanto ha trasformato i Pontiak, nel giro di appena un decennio, da giovani stelline dell’underground americano a fautori di un’originalissima forma mentis stoner tutta sensorialità ed astratta evocazione può essere concettualizzato con una freccia che procede dal basso verso l’alto: una meravigliosa, metafisica scala ascendente, i cui pioli sono rappresentati da una serie di dischi elementari eppure inafferrabili, sempre più audaci nella composizione, nell’esecuzione e nella presentazione (perché come si suona è altrettanto importante del cosa si suona). Arriva certo sospiratissimo, ma comunque un po’ a sorpresa, questo “Dialectic Of Ignorance”, a tre anni dal capitolo più diretto e materico mai scritto dai fratelli Carney (“Innocence”) che, nel frattempo, nella loro fattoria di proprietà in Virginia, si sono reinventati mastri birrai. Mescita lunga Dio l’aiuta: e i Pontiak, per la prima volta nella loro carriera, mutano la crescita verso l’alto in una granitica barra orizzontale, che simboleggia ad un tempo solidità e conservazione.

L’aspetto che impressiona e sbalordisce di “Dialectic Of Ignorance”, ciò che rimane sostanzialmente immune al tempo e all’usura, è la gestione sovrumana (quasi jazzistica, come è stato già notato) delle dinamiche. Mai, nemmeno per un istante, si ha la benché minima impressione che una nota, una vibrazione, una sfumatura possano sfuggire al controllo del power trio. Tutto è calcolato al dettaglio, dosato con la massima parsimonia. Niente eccede, ma nulla viene perduto. L’essenzialità, da sempre caratteristica distintiva della band, qui diviene quasi precetto inviolabile. Da ascoltare in religioso silenzio è una “Ignorance Makes Me High” che, in mano a qualcun altro, sarebbe stato il solito, prevedibile assalto fuzz all’arma bianca. I Pontiak ne fanno invece un catramoso congegno ad orologeria, un monolite di anestetizzante e nerastro kraut-stoner che mai esplode e mai lascia indovinare completamente i propri contorni: l’apice è raggiunto con un assolo di chitarra che traspone, nelle lande dell’acid-psych, la lezione del minimalismo, quasi come se ogni suono pesasse una tonnellata (e forse è davvero così).

Intontimento, reiterazione e circolarità pervadono da cima a fondo un disco che, per citare uno dei suoni brani più iconici e contemplativi, brucia davvero di hidden prettiness: qui i Pontiak scelgono di amministrare, rimanendo sul posto, anziché muoversi avanti o indietro. Si risentono dunque i crepuscolari, densi organetti pompeiani di “Comecrudos” nell’iniziale “Easy Does It” (una barcollante, irreale apparizione fenomenica, la cui andatura sbilenca si regge su un pugno di arpeggi elettrici e su una batteria in controtempo). Nell’estasi trascendentale viene menato pure qualche colpo sotto la cintola (il voluminoso riff sabbathiano di “Herb Is My Next Door Neighbor”, i lampi noise che incendiano l’americana doomish della conclusiva “We’ve Fucked This Up”), ma a prevalere, anche negli episodi meno brillanti (“Youth And Age”, per certi versi, sembra scippata ai Comet Control), è un senso di assoluta, infinita atarassia, anche quando i timbri adottati richiederebbero uno svolgimento ben più ruvido (“Dirtbags”).

Fra tante conferme manca, questo sì, l’effetto dirompente, sacrilego della novità: che, a ben vedere, è sempre stato il motore propulsivo delle sperimentazioni dei Carney. Preferiamo pensare che l’ingranaggio si rimetterà in movimento già dal prossimo disco.

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