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R Recensione

6,5/10

Elder

Omens

Come in una nuova puntata di un romanzo epico americano contemporaneo, senza inizio né fine, il ritorno degli Elder, a tre anni esatti di distanza dal prestigioso precedente “Reflections Of A Floating World”, produce lo stesso impatto estetico del figurarsi la sagoma solitaria di un protagonista loner solcare l’orizzonte descrittivo della narrazione: un sorriso obliquo che increspa il volto, il desiderio di capire dove porteranno le successive avventure. È tutto nuovo e al contempo tutto già visto, il cammino del quartetto statunitense guidato da Nicholas DiSalvo, tale da motivare una certa non immodesta curiosità: l’evoluzione del gruppo, dopo la defezione del batterista Matt Couto (rimpiazzato dal fidato Georg Edert), la staffetta di superospiti fra la lap steel di Michael Samos e le tastiere del nostro Fabio Cuomo e l’uscita delle preparatorie “Gold & Silver Sessions” (2019), inaspettatamente dominate da una psichedelia ambientale dalle tonalità più tenui e proggy, sembrava tutta avvolta da un alone di imprevedibilità. Quinto disco lungo in poco più di un decennale d’attività, “Omens” certifica oggi un’avvenuta transizione verso un suono più rotondo e pastoso, meno tagliente e armonicamente ancora più evoluto.

Per quanto l’essenza di un lavoro così denso rischi di sfuggire tra le maglie di uno schema per pro e contro, un po’ di ordine analitico rende comunque giustizia ai pattern che caratterizzano la struttura di “Omens”. Punti di forza: le melodie chitarristiche. Che nascono, si annodano fra loro, si chiamano e richiamano a distanza, si sovrappongono e si annullano, con un effetto di apparente levità che riesce a neutralizzare l’evidente complessità della scrittura. Nel brano anticipatore, “Embers”, sembra addirittura di ascoltare una versione espansa, ragnateliforme e ricorsiva dei Baroness di “Yellow And Green”, con un dosaggio degli stacchi e una superba costruzione degli arrangiamenti che richiama in gioco grandi nomi del revival hard-prog degli ultimi due decenni (la malinconica sostanza melodica dei Motorpsycho, la raffinatezza di un Magnus Pelander, per citarne solo alcuni). Particolarmente sontuoso è il brano più lungo del lotto, “Halcyon”, la cui lenta carburazione iniziale viene esaltata dallo splendido lavoro nelle retrovie di Cuomo (oscure macchie impressionistiche di synth nel corpo centrale, una coda quasi carpenteriana) e dal fitto dialogo paesaggistico delle sei corde di DiSalvo e Michael Risberg. Punti deboli: l’inscalfibile consonanza hardamericana dei costrutti armonici chitarristici, che nella weedpeckeriana “In Procession” si dissolve in un flusso floydiano in cui i synth sembrano suonare come armoniche a bocca, tende a scivolare nello stucchevole solamente nella conclusiva “One Light Retreating”, la cui cinematica coda strumentale, per quanto pregevole, allunga il brodo di almeno quattro minuti. Il vero problema, tuttavia, che accomuna curiosamente gli Elder ai Mastodon prima ancora che ai summenzionati Baroness (o, se vogliamo rimanere nel genere, agli Stoned Jesus), è la discutibile prestazione vocale di DiSalvo: assai meno espressiva che nel recente passato, forzata nei salti di tono, mai a suo agio nel tenere sospese le note (aspetto, questo, particolarmente evidente nella title track, un magniloquente AOR che si snoda tra scorticanti asperità stoner e riflessioni psichedeliche).

L’impressione generale è che non vi fosse modo di fermare o alterare il corso della trasformazione che ha interessato il gruppo, ma che i risultati ottenuti in “Omens”, nel complesso, siano comunque meno interessanti ed originali di quelli maturati nelle prove immediatamente precedenti. Il vago sospetto è che si tratti solamente della prima fase di un processo destinato a durare nel tempo.

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