Pontiak
Living
Ed alla fine arrivò il capolavoro. Cera da aspettarsela. Come quei film che ruotano attorno allidea della catastrofe e dellinevitabile day before: il preludio prima della tempesta. Tre sono i fratelli Carney, from Virginia, che si alternano nel più classico dei power trio e formano il nucleo dellessenza Pontiak. Non puntate sullestetica e leducata polvere sudista dei Kings Of Leon: la sola loro presenza è scenica, dimpatto, on the road (ah, i vecchi detti dei tempi doro ). Giovani vecchi scapestrati, con la terra battuta sotto i tacchi ed uno scalcinato pick up caricato con la strumentazione. Tre, come gli anni impiegati per realizzare i loro ultimi dischi. Tutto, prima o poi, torna Living piomba, con ogni benedizione del caso, dopo uno shockante uno-due, quello di Maker e Sea Voids. Una piccola carriera in cui già ogni cosa va al suo posto. Il blues felpato e carezzevole ricoperto di quintessenza Seventies, larroventata forma di Palm Beach, la furia animale e pestona: inizialmente le carezze, poi le esplosioni.
Il bello, dopo tutto questo tempo, è rendersi conto di non saper definire cosa suonino esattamente i Pontiak. Come, forse, sì. Appena si scende nelle etichette, invece, il discorso saggroviglia, si complica, muore. Sembra faccenda da poco: il rocknroll degenerato, lheavy blues, paradigmi che si conoscono da decenni e ancor prima si potevano perfettamente intuire. Tuttavia, è sufficiente addentrarsi nelle spiegazioni che subito i generi si accavallano, le sfumature crescono, la rete di paragoni si gonfia e si annulla, ciò che è anacronistico diviene attuale, il semplice si rende impossibile. Cè dellhard rock, un po di stoner come si deve, unimpronta metal, la perizia tecnica delle migliori. Poi però spuntano fuori organetti psichedelici, il proto-punk degli MC5, rugginose pause acustiche, il country, il southern, le melodie surf, i ritmi beat, il funk, la musica nera: e si è, nuovamente, al punto di partenza. Di conseguenza faremo così: definiremo quello dei fratellini suono totale, proprio nella sua inesplicabile virtù di abbracciare e filtrare ogni delizia, possibile ed immaginabile.
Una colata di soliti noti, insomma. Sempre quelli. Sempre così efficaci ed eleganti da sembrare scoperti laltro ieri. Frullati assieme in quali e quante quantità, poi! Persino un jap-noiser alle prime armi (e valvole di sfogo) riuscirebbe a comporre il capolavoro della vita. Immaginate, a maggior ragione, di avere di fronte dei perfetti costruttori di canzoni, impeccabili sotto il profilo dellincastro strofa-refrain, con unattrazione ciclica verso mantra ad espansione illimitata. Living è roba da rimanere a bocca aperta, nonostante tutto. Ogni brano ne introduce un altro, in un capovolgersi di fronte che non lascia un attimo di respiro. Il boogie secco ed essenziale di Young (Angus o Malcom? O la versione contemporanea di Freelance Fiend dei Leaf Hound?) si schianta rumorosamente su Original Vestal, nello stesso modo in cui il sobrio folk bucolico di Forms Of The, incontro fra Grateful Dead e Fleet Foxes, precipita in picchiata sulla psichedelia sismica di Thousands Citrus. Spettro di influenze, il loro, che più si allarga più si solidifica, radicato in unesperienza studio e live in continua crescita qualitativa e quantitativa.
È stimolante ed interessante, a margine, notare che la stragrande maggioranza delle recensioni sui Pontiak, disponibili sul web o per la carta stampata, facciano leva sul loro esuberante citazionismo capace di rinnovarsi, con gusto e costanza rari di questi tempi, al giorno doggi, rilanciando lutopia di un passato riarrangiato al presente, senza alcun timore di finire spersonalizzati. Con siffatti numeri, e nellottica di una simile evoluzione, non si può far altro che confermare, ancora una volta (se non, addirittura, con maggior forza), unimpressione del genere. Inutile e velleitario cercare di meglio, perché nulla, attualmente, è al livello dei nostri tre scapestrati, seriamente candidati a ripercorrere le orme dei Motorpsycho per esplorazione ed esuberanza. Lentusiasmo, nel frattempo, cresce. Cresce, perché provocanti stilettate come Algiers By Day sono state scritte sin dalla notte dei tempi, ma mai in questa maniera, così calda, così coinvolgente. Cresce e non si ferma, come i bassi travolgenti di And By Night che ruzzolano con fisicità incontenibile, aprendo squarci spaziali dove la chitarra furoreggia, acida: come le vertigini mariachi di Second Sun, stoner riletto in chiave post rock. Cresce assieme alla lenta tensione del post-sludge di Lemon Lady, attraversato da parte a parte da feedback, alla ballata crepuscolare di Virgin Guest per chitarra acustica e ipnotico Moog, alle progressioni dellabbacinante gemma Pacific, solitario disgregarsi interstellare, con una sei corde assoluta protagonista.
Tutto qui. Si fa per dire, chiaramente.
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