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R Recensione

8/10

Pontiak

Living

Ed alla fine arrivò il capolavoro. C’era da aspettarsela. Come quei film che ruotano attorno all’idea della catastrofe e dell’inevitabile day before: il preludio prima della tempesta. Tre sono i fratelli Carney, from Virginia, che si alternano nel più classico dei power trio e formano il nucleo dell’essenza Pontiak. Non puntate sull’estetica e l’educata polvere sudista dei Kings Of Leon: la sola loro presenza è scenica, d’impatto, on the road (ah, i vecchi detti dei tempi d’oro…). Giovani vecchi scapestrati, con la terra battuta sotto i tacchi ed uno scalcinato pick up caricato con la strumentazione. Tre, come gli anni impiegati per realizzare i loro ultimi dischi. Tutto, prima o poi, torna… “Living” piomba, con ogni benedizione del caso, dopo uno shockante uno-due, quello di “Maker” e “Sea Voids”. Una piccola carriera in cui già ogni cosa va al suo posto. Il blues felpato e carezzevole ricoperto di quintessenza Seventies, l’arroventata forma di Palm Beach, la furia animale e pestona: inizialmente le carezze, poi le esplosioni.

Il bello, dopo tutto questo tempo, è rendersi conto di non saper definire cosa suonino esattamente i Pontiak. Come, forse, sì. Appena si scende nelle etichette, invece, il discorso s’aggroviglia, si complica, muore. Sembra faccenda da poco: il rock’n’roll degenerato, l’heavy blues, paradigmi che si conoscono da decenni e ancor prima si potevano perfettamente intuire. Tuttavia, è sufficiente addentrarsi nelle spiegazioni che subito i generi si accavallano, le sfumature crescono, la rete di paragoni si gonfia e si annulla, ciò che è anacronistico diviene attuale, il semplice si rende impossibile. C’è dell’hard rock, un po’ di stoner come si deve, un’impronta metal, la perizia tecnica delle migliori. Poi però spuntano fuori organetti psichedelici, il proto-punk degli MC5, rugginose pause acustiche, il country, il southern, le melodie surf, i ritmi beat, il funk, la musica nera: e si è, nuovamente, al punto di partenza. Di conseguenza faremo così: definiremo quello dei fratellini suono totale, proprio nella sua inesplicabile virtù di abbracciare e filtrare ogni delizia, possibile ed immaginabile.

Una colata di soliti noti, insomma. Sempre quelli. Sempre così efficaci ed eleganti da sembrare scoperti l’altro ieri. Frullati assieme in quali e quante quantità, poi! Persino un jap-noiser alle prime armi (e valvole di sfogo) riuscirebbe a comporre il capolavoro della vita. Immaginate, a maggior ragione, di avere di fronte dei perfetti costruttori di canzoni, impeccabili sotto il profilo dell’incastro strofa-refrain, con un’attrazione ciclica verso mantra ad espansione illimitata. “Living” è roba da rimanere a bocca aperta, nonostante tutto. Ogni brano ne introduce un altro, in un capovolgersi di fronte che non lascia un attimo di respiro. Il boogie secco ed essenziale di “Young” (Angus o Malcom? O la versione contemporanea di “Freelance Fiend” dei Leaf Hound?) si schianta rumorosamente su “Original Vestal”, nello stesso modo in cui il sobrio folk bucolico di “Forms Of The”, incontro fra Grateful Dead e Fleet Foxes, precipita in picchiata sulla psichedelia sismica di “Thousands Citrus”. Spettro di influenze, il loro, che più si allarga più si solidifica, radicato in un’esperienza studio e live in continua crescita qualitativa e quantitativa.

È stimolante ed interessante, a margine, notare che la stragrande maggioranza delle recensioni sui Pontiak, disponibili sul web o per la carta stampata, facciano leva sul loro esuberante citazionismo capace di rinnovarsi, con gusto e costanza rari di questi tempi, al giorno d’oggi, rilanciando l’utopia di un passato riarrangiato al presente, senza alcun timore di finire spersonalizzati. Con siffatti numeri, e nell’ottica di una simile evoluzione, non si può far altro che confermare, ancora una volta (se non, addirittura, con maggior forza), un’impressione del genere. Inutile e velleitario cercare di meglio, perché nulla, attualmente, è al livello dei nostri tre scapestrati, seriamente candidati a ripercorrere le orme dei Motorpsycho per esplorazione ed esuberanza. L’entusiasmo, nel frattempo, cresce. Cresce, perché provocanti stilettate come “Algiers By Day” sono state scritte sin dalla notte dei tempi, ma mai in questa maniera, così calda, così coinvolgente. Cresce e non si ferma, come i bassi travolgenti di “And By Night” che ruzzolano con fisicità incontenibile, aprendo squarci spaziali dove la chitarra furoreggia, acida: come le vertigini mariachi di “Second Sun”, stoner riletto in chiave post rock. Cresce assieme alla lenta tensione del post-sludge di “Lemon Lady”, attraversato da parte a parte da feedback, alla ballata crepuscolare di “Virgin Guest” per chitarra acustica e ipnotico Moog, alle progressioni dell’abbacinante gemma “Pacific”, solitario disgregarsi interstellare, con una sei corde assoluta protagonista.

Tutto qui. Si fa per dire, chiaramente.

 

V Voti

Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 11 voti.
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REBBY 5/10

C Commenti

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Ivor the engine driver alle 17:55 del 23 luglio 2010 ha scritto:

boh

Dopo una partenza folgorante con Sun On Sun, a me hanno fatto l'effetto contrario. Questo non sono ancora riuscito a finirlo ad ascoltare per intero una volta. E di solito questo è il mio pane. Stesso dicasi per Sea Voids. Mi ci rimetterò + avanti. Bella rece Marco

Marco_Biasio, autore, alle 11:54 del 24 luglio 2010 ha scritto:

Ciao vecchio mio, grazie del passaggio. No beh tranquillo, posso pensare senza nessun tipo di problema che il tuo Pontiak preferito stia da altre parti, d'altro canto hanno inciso già un numero considerevole di dischi in pochissimo tempo con una qualità media davvero notevole. Quindi è normale che alcuni possano sentire un po' di stanca laddove altri ci sentono invece un gran disco A presto!

tarantula (ha votato 8 questo disco) alle 13:10 del 24 luglio 2010 ha scritto:

Sin dal primo disco, i Pontiak mi hanno folgorato! Anche questo non delude, ed il bello è che mi fa lo strano effetto di un suono familiare ma che non divela le sue melodie al primo ascolto, solo l'atmosfera è bella e ben riconoscibile. Ad ogni nuova passata, a seconda dell'attenzione o dello stato d'animo, c'è u altro pezzo che mi ipnotizza e mi fa credere che è il più bello del disco; forse solo il 2folk bucolico" (cito dal recensore) non mi ha ancora mai entusismato.

Grandi...grandi...grandi...come pochi se ne trovano!

ThirdEye (ha votato 6 questo disco) alle 21:32 del primo agosto 2010 ha scritto:

Mhh

Carino, ma pare non riescano a ripetersi ai livelli di Sun on Sun, quello si che era un mezzo capolavoro.

ozzy(d) (ha votato 8 questo disco) alle 14:17 del 13 dicembre 2010 ha scritto:

Gran bel disco e ottima recensione, concordo anche sulle influenze Motorpsycho.