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R Recensione

5,5/10

Lilacs & Champagne

Danish & Blue

Danish & Blue era un lungometraggio softcore americano di Zoltan G. Spencer, datato 1970, di cui oggi rimangono poche (e perplesse) testimonianze sul web: se è alquanto improprio parlare di albori della pornografia (e il genere, in retrospettiva storica, presenta una sagomatura così frastagliata ed indefinita da esigere, sooner or later, una trattazione finalmente filologica), si è comunque nel bel mezzo di un periodo di transizione, a cavallo tra gli ultimi fuochi della rivoluzione sessuale interplanetaria e in futura proiezione “fredda”. Il tema era allora molto dibattuto nella civile Danimarca, così come nel resto del mondo: legalize or forbid? Due anni prima della povera rielaborazione narrativa di Spencer, era stato il cineasta Gabriel Axel – futuro premio Oscar, nel 1987, con Babette's Feast, noto in Italia come Il pranzo di Babette – a spingere per la prima soluzione, in un mockumentary da lui scritto e diretto (Det kære legetøj, conosciuto come The Dear Toy o, appunto, Danish Blue) direttamente ed esplicitamente teso alla propaganda della missione legalizzatrice. Missione compiuta, si potrebbe chiosare, dato che nel fatidico 1969 il governo liberale (!) di Hilmar Baunsgaard approvò in Folketing una mozione per l'abolizione della censura sulle pellicole da white coater.

Il secondo disco di Lilacs & Champagne, side project di Alex Hall (Grails) ed Emil Amos (Grails, OM) già messosi in luce con il bell'esordio omonimo dell'anno scorso, prende a pretesto il tema per cercare di spingere più in là la disomogenea miscela plunderfonica loro tipica, frantumata miscellanea di input variamente selezionati ed incasellati all'interno di una composizione di contorno propria. L'arte di disporre i samples, in altri termini. Che non sia compito facile e alla portata di chiunque lo si evince, peraltro, scorrendo la tracklist di “Danish & Blue”. Se le atmosfere si sono fatte a tratti ancora più striscianti e pervasive (“Sour / Sweet” è una sorta di trip hop stordito dove la voce è un frammento indistinto tra i beat e il tipico gracchiare della puntina del vinile: “Police Story” una mazzata exotic-noir con una linea di basso da strapparsi i capelli; “Honest Man” uno stonatissimo stream of consciousness tra chitarre acide e ritmiche hip hop) è l'insieme ad aver acquistato, sui generis, una pesantezza di scorrimento a tratti fin troppo gravosa. Le intuizioni di Hall ed Amos sono perciò vincenti, ma prive di continuità. È sicuramente, almeno in parte, una volontà precisa, una scelta intrinseca nella natura non allineata dello stesso disco. Nella reiterazione della pompa magna chitarristica di “Hamburgers & Tangerines” si raggiunge un effetto di stratificazione quasi shoegaze (poca roba, a dire il vero) che poco ha a che spartire con gli accordi sfumati e riverberati di “Refractory Period”, pseudo dream pop meticciato black, con il cut'n'paste selvaggio di “Metaphysical Transitions II” o con i torridi fraseggi distorti di “Le Grand”. Troppi salti, in troppe direzioni, e poca concretezza.

Lo scarto tra esordio e sophomore, a cercare il gist, non è in realtà così pronunciato. Proprio nella mancanza di uno scatto evolutivo, nello stallo di crescita artistica sta, in fondo, la vera delusione di “Danish & Blue”. Non è peccato, assorbito il primo, non approfondire ulteriormente.

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Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Ivor the engine driver alle 15:59 del 29 luglio 2013 ha scritto:

Lo volevo sentire, ma già il precedente che mi sembrava all'inizio un bel disco, mi si afflosciato subito. Bella recensione come al solito Marco