Gonjasufi
A Sufi and a Killer
Che disco potrà mai realizzare un ex-rapper che sembra nato da un rapporto inimmaginabile tra Bin Laden e Devendra Banhart, che di mestiere fa l’insegnante di yoga e che quotidianamente si spacca di canne?
Questa specie di busker sopravvissuto alle illusioni degli anni settanta si chiama Sumach Ecks (ma è noto anche come Sumach Valentine o Randy Johnson), e gli addetti ai lavori parlano talmente tanto di lui che verrebbe quasi voglia di ignorarlo. Dopo aver prestato la sua voce sporca e fumosa (ma sarebbe meglio dire “fumata”) a Flyng Lotus nella sua “Testament”, approda in casa Warp e interpreta le sue visioni sulle basi prodotte da pezzi da novanta come Gaslamp Killer e Mainframe.
“A Sufi and a Killer” è un disco eccentrico, composto da brevi schegge sonore che sembrano bozze giocose e idee mai sviluppate. Una musica che trae omogeneità esclusivamente dall’alone psichedelico e della costante attitudine intorpidita. All’interno di questa bolla viola e piena di fumo, si muovono brevi introduzioni tribali (“(Bharatanatyam)”), liquidi mantra hippy (“Kobwebz”) e post-hip hop urbani (“Ancestors”). Il tratto distintivo del visionario mondo musicale di Gonjasufi è però la capacità di oltrepassare i limiti dell’ hip hop “astratto” per percorrere con naturalezza strade impervie e completamente diverse fra loro: “Sheep”, ad esempio (l’unico pezzo che raggiunge i quattro minuti), sembra una riedizione delle morbidezze funk-erotiche di un Gainsbourg meno cinico, “She Gone” (per chi scrive, il pezzo migliore) è una versione acustica della percussività vocale di Tom Waits mentre “SuzieQ” gioca pesantemente con il riff di “I wanna be your dog”. Come scomodare mostri sacri senza prendersi troppo sul serio.
E mica è finita qui: “Kowboyz And Indians” infila su bassi abrasivi vocalizzi Bollywoodiani, “Change” rimanda ai Portishead del secondo album (o ad Isaac Hayes, fate voi) mentre la successiva “Dust” (effetto voluto?) richiama la “sexyness” di Tricky. “Candylane”, con il suo incedere electro-funky sembrerebbe fuori contesto, non fosse altro che il contesto non c’è. E così la base acida come unico sostegno della voce profondamente blues di Gonja su “Holidays” (l’ho già detto “per chi scrive, il pezzo migliore”?), le ritmiche oscure di “Love of Reign”, i ricordi anni ’70 di “I’ve given” e gli infidi pericoli metropolitani di “Advice” (altro pezzo dal fascino indescrivibile) sono piccoli capolavori proprio perché brillano di luce propria pur inserendosi perfettamente in un disco che - giocando con i generi in modo Tarantiniano - riesce a tenersi alla larga da ogni tentativo di classificazione.
Allora, per rispondere alla domanda iniziale: probabilmente il migliore di questo inizio 2010.
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