Gonjasufi
MU.ZZ.LE
Ok, the true story of Sumach Ecks la conosciamo un po’ tutti (ma anche no): crisi esistenziale nella biografica stasi post hip-hop (Master of the Universe; Kilowatts; Sumach); mastro/guru yoga redento nel peccato - Las Vegas - e infatuazione (medi)orientale da metà dello scorso decennio; ritrovata aura artistica bypass Flying Lotus più compagnia ‘glitch’ (The Gaslamp Killer) e produttori del circondario losangelino; e, infine, il successo internazionale, con “A Sufi and the Killer” (Warp, 2010).
In estrema e banale sintesi.
Ché Gonjasufi è, invece, artista dal vissuto complesso (eufemismo): personaggio urbano e a fasi selvaggio, da conquista (pre)annunciata di primi piani in riviste indie-patinate, sul giro di boa del decennio appena trascorso, così come da pretese d'isolamento forzato. Musicista da zero (o giù di lì) compromessi, immerso in una sua, marcata, sfera autistica in rotta sotto un cielo di bagliori allucinogeni - e punti cardinali no: introspezione nitida ma alla cieca -, ma capace di 'collaborare' con efficacia con schiere di produttori. Un canto, quello del californiano, che trabocca idiosincrasia e filosofie di vita inflazionate (ma pur sincere) da tutti i pori; stile dannato e drogato (e la cattedrale che è il suo corpo?), ascetico (ummm…): questo, ciò che lui (nel ruolo designatosi) è.
Sumach, insomma, che a fronte di una certa ‘profondità’ (presunta o reale che sia), ha mostrato la sua potenzialità espressiva nei territori, ampi, della forma; una forma che è sì viatico in cui trascendere dal reale, ma che di fatto nasce dal comodato d’uso di sample o intere basi altrui (es. lapalissiano e bellissimo: Erkyn Koray, “Yagmur”; Gonjasufi, “Sheep”), decostruiti o ‘sani’, caleidoscopici e carichi di echi-riverberi, su filigrana noise/jazzy e astratta. Gonja il Sufi che ‘effetta’ e distorce il suo soul-roots scevro di filtri – non sembrerebbe, ma è così (che lui dice) - via stati mistici e pose damné-lisergiche; impalca groove liquidi e giri di chitarra funky e ipnotizzanti, su beat cadenzati. Il suo esordio presentava sì uno smaccato corpo sperimentale, e sporco di istinti hop, ma addomesticato da insight melodici, su registri denaturati e lo-fi: brevi composizioni, quindi, miracoli embrionali di delirio pacifico, auto-osservazione e psichedelia sixties ampia e sparsa.
Questo nuovo mini-album (preceduto da una serie di Ep rilasciati aggratis sul web), riprende un po’ il fil rouge dell’opera precedente, ma imbrattato di nero pece, istanti di oblio esistenziale - è tornato, torna sempre – e asprezza da illuminazione socio-psicopatologica (<<Children fucking blow up malls/Grown men fucking blow-up dolls/I’m not the perfect man, and I never claimed to be/ I’ve done some things in my time and even I’m ashmed of me>>, da “The Blame”); allora, per dirla con Sumach Ecks <<più che un Sufi, questo è un album Killer>>. Avvisaglie col senno di poi (“Advice”), ma a certificare la ‘crisi’ è, ad una prima rilevazione ottica, la copertina: il faccione brutto e barbuto di Gonjasufi in posa monalisiana, stretto nella morsa di una museruola e del nero. repeat: Ad una prima rilevazione temporo-frontale, il downtempo base e le sincopi robuste di “Venom” affascinano (ma è un tantino scheletrica), così come lo shock emotivo del trip-(hip)hop in slowmotion - più disordini e dilatazioni ritmiche - di "Feedin’ Birds" (vetta del disco; stupendo e angosciante il cantato sgranato/gibbonsiano della moglie); cool il crescendo fisico su sfondo vocal drammatico di “Skin”, così come l’apparizione del loop chitarristico di “The Blame”, in electro-spirali grezze e sfumate vertigini ambient. È un suono insomma, quello di Ecks che è si metafisico, ma in certi aspetti anche tangibile, al limite del carnale: le escrescenze marziali "Rubber Band", riprese dal tema di "Nikels and Dimes", ibrido dolente di Dj Shadow, Samiyam, Flying Lotus.
Senza perdere in giocosità ciclotimica (“Sniffin’”) e istinto melodico (“Blaksuit”, “The Blame”), di colpi di grazia sulla scia in S&K (“Sheep”, “Holidays”, “Candylane”) non v’è traccia: una “Demochild” sottratta ad una precedente micro release (“The Ninth Inning Ep”) avrebbe, per chi scrive, elevato notevolmente la qualità dei venticinque minuti qui recensiti. Infine, anche le linee vocali mostrano un minor potere catartico (con l'eccezione di "Feedin' Birds" e "Skin"), quasi non fossero sempre in grado, rispetto al recente passato, di ipnotizzare a tutto tondo.
Insomma, con "MU.ZZ.LE" Gonjasufi non arriva ad una frattura totale (di cosa?) di una muzzle che, il nostro, qui come non mai, sembra tentar di voler sfuggire e attrarre a sé come un ossessione... aspettiamo buone nuove.
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