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R Recensione

6,5/10

Ottone Pesante

DoomooD

Seppur concentrata nell’arco di appena un lustro, la carriera degli Ottone Pesante ha già attraversato una serie di tappe fondamentali per la loro evoluzione stilistica, da schegge impazzite dell’heavyground tricolore (l’omonimo EP del 2015) a stolido trio di picchiatori incalliti (“Brassphemy Set In Stone”, 2016), sino all’apertura necessaria verso lovecraftiani spazi orchestrali (“Apocalips”, 2018) e (s)coloriture black senza alcuno stereotipo di genere (l’ottavo volume delle Subsound Split Series smezzato con i Sudoku Killer di Caterina Palazzi, 2019). Arriva ora, inevitabilmente, il disco palindromo, primo per una label vera e propria (e che label: Aural Music), monosillabo creatore e sentenza capitale, la sinfonia doom per eccellenza: perché chi ha mai visto all’opera gli ottoni delle bande balcaniche sa perfettamente che i loro epinici sono trenodie, gli arabeschi melodici loop infiniti in cui precipitare riversi a terra, gli scatenati inviti alle danze sottili memento mori venati d’angoscia esistenziale, i grandi sorrisi smorfie carnascialesche per occultare le incurvature degli angoli della bocca (e ditelo, a chi ancora pensa di suonare “Bella Ciao” col piglio del barricadero con le tombe degli altri, che è l’ultima lettera di un morto all’amata con cui mai si ricongiungerà).

Introdotto il lugubre motivo portante dell’intero disco (l’iterazione al ralenti delle poche note di “Intro The Chasm”), ecco che si alza il sipario su “DoomooD” – riferimento quasi oleografico alla lunga suite che chiudeva “Apocalips”, che a sua volta prendeva a prestito il titolo dal brano conclusivo di “Brassphemy Set In Stone”. Dovesse la tradizione proseguire immacolata (si fa per dire), tanti auguri al successore: “End Will Come When Will Ring The Black Bells”, suonata con la pesantezza metafisica dei primi e unici Thergothon, fa quasi sembrare la Fuzz Orchestra di Bergman infatuata una torma di ragazzini timorati di Dio (campane a morto incluse nel prezzo). Si esagera un po’, naturalmente, ma non si è nemmeno così distanti dalla realtà come si potrebbe credere: “DoomooD” è davvero il disco più cupo e nero del trio di Faenza, un flusso limaccioso che mai si rischiara, nemmeno nelle rade ed asincrone aperture melodiche (il jazzcore mediterraneo e crepitante di “Serpentine Serpentone”, con bordone d’ottoni à la Darkthrone). E finché il gioco rimane circoscritto all’agone strumentale, va detto, alcuni dei risultati ottenuti brillano per intensità: ad esempio, la possenza epica di un post-core neurosisiano alla deriva in “Coiling Of The Tubas”, con il solo lacerante della tromba di Paolo Raineri (nel mix si distingue chiaramente anche un’acustica), o ancora la ripresa del tema principale nel catacombale dark ambient di “Grave” (con finale in elettrico crescendo e coda d’impetuosa, decadente magniloquenza). A non essere ancora ben sincronizzate sono, piuttosto, le ospitate vocali: Sara Bianchin dei Messa fa certo un figurone nel guidare l’atmosferico kolo brassapocalittico di “Tentacles”, ma non così bene va a Silvio Sassi degli Abaton, i cui ringhi sono al più superflui nella summenzionata “Serpentine Serpentone” e decisamente di troppo in “Strombacea” (mid dagli interessanti contrappunti quasi ethno).

Questa persistente asimmetria, unita alla sporadica presenza di spunti isolati lasciati – volutamente? – incompiuti (il modo in cui, in “Endless Spiral Helix”, il flicorno di Raineri modula su accenti quasi favolistici il tema iniziale meritava di essere perseguito e sviluppato più a fondo), costringe a fare un nuovo passo indietro e a tornare a moderare gli entusiasmi. È forse scritto nel destino che gli Ottone Pesante debbano scrivere il loro capolavoro: ma quel capolavoro non è “DoomooD”.

V Voti

Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 1 voto.
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