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R Recensione

6/10

Le Chiavi del Faro

Dentro

Quant’è difficile sintetizzare, in poche parole concise, l’esperienza d’ascolto di un disco come “Dentro”: nemmeno dovessimo trovare, nell’universo, un parametro guida su cui poggi l’Axis mundi! Strano ma vero. La strumentazione crossover, sempre in bilico tra vetusta megalomania e artistico senso della variazione: il cantato; l’interplay minimale, ridotto quasi sempre all’assetto da power trio, ma non per questo meno fantasioso; ancora il cantato; le impeccabili squadrature ritmiche su cui volteggia la chitarra; il cantato, già; quelle liriche dadaiste, evanescenti; e poi, naturalmente, il cantato. Ci siamo ripetuti? Questo è perché Le Chiavi Del Faro è un gruppo di ambivalenza assoluta. L’approccio del blocco non mette a nudo specifiche problematiche: è poi il particolare – come in tutti i gruppi particolarmente creativi – ad essere spesso negletto, con il rischio, costante, di dissipare in un nulla invenzioni preziose ed intuizioni vincenti.

La formazione si presenta da sola, con l’eloquente “Strage Dal Deserto” posta strategicamente in apertura: la sei corde di Federico Uccellani che svaria liberamente fIREHOSE nelle strofe (con un pizzico dell’hard rock che conta in fase solistica), basso e batteria in sinergia quasi-Primus (quasi, perché non si scorge nemmeno in lontananza l’esaltazione tecnica di Claypool e compari) e poi, sciaguratamente, una voce in primissimo piano, a disegnare melodie roboanti ma – in definitiva – inconsistenti. Difficile raccapezzarsi: abbiamo appena ascoltato gli Incubus, LeSigarette!! o i Timoria? Perplessità a pieno carico col subentrare di “San Complotto E La Rotella”: botta novantiana in apertura, rallentamento graduale (perché questa volta sentiamo i Ritmo Tribale?) e arrembaggio chitarristico su cui cala il sipario. La combinazione tra impasto strumentale e armonie vocali si manifesta, a tratti, sotto forma di collisione (“Sporchi”): un disturbo di fondo sempre pronto, tuttavia, ad essere riassorbito, in brani che rassomigliano quasi a ritornelli stirati all’infinito (ma le finezze dei fraseggi e dei cambi di tempo in “Rotula” sono pregevoli) e in lenti di risibile incisività (l’eccessivo slancio lirico di “Plastiche, L’Inventario”). Il problema, se di problema si può effettivamente parlare, è che musica così dinamica richiederebbe tutto un altro approccio nel cantato: meno appariscente, probabilmente, ma anche più coraggioso, meno tradizionale. È una contraddizione in termini che impedisce a “Dentro” di spiccare definitivamente il volo: non basta stravolgere di funk il gradevole beat conclusivo di “La Quasi Fine”, reinventarsi Minutemen in “Le Nuove Metriche” e cercare disperatamente una quadra con l’elettronica in “Nomine”.

Prevale l’opinione che, se il disco fosse stato interamente strumentale, il giudizio sarebbe lievitato di conseguenza. Non che non sia un’opzione vagliabile per il futuro, si intende.

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