Edda
Odio i Vivi
Tornare a parlare di Stefano “Edda” Rampoldi è doloroso come una carezza in punto di morte. Non esiste un criterio sicuramente giusto di raccontare l’inenarrabile, di finire a colpi di penna o tastiera ciò che per sua natura non finisce. Affrontare un disco, una canzone, un verso di Edda, non è affatto come affrontare un disco, una canzone, un verso: è avere a che fare con Stefano Rampoldi stesso, la sua corporeità tangibile, il suo sudore, la saliva, il vomito, senza mediazioni. Il pensiero di un uomo è equivocabile, l’uomo no. Odio i Vivi mette soggezione, perché non è interpretazione musicata di uno stato d’animo: è stato d’animo. Non c’è nessuno spettacolo da mettere in scena, non c’è messinscena affatto: non esiste pensiero soggettivo dinanzi alla nudità.
Nudità scarnificata, esposta, offesa in Semper Biot, esordio (o meglio resurrezione) del 2009 che fu epifania devastante perché improvvisa, voce di violenza flebile, farfalla dopo anni da crisalide; nudità schizofrenica, multiforme, posseduta in Odio i Vivi, l’esplosione che non ti aspetti, detonazione colorata di arancio che sa di morte e rinascita, morte e rinascita, morte e rinascita… e solo il folle ne coglie il senso ultimo.
Come Semper Biot, Odio i Vivi è scritto da Edda e Walter Somà e prodotto splendidamente da Taketo Gohara, ma del suono e dell’umore del precedente conserva il minimo indispensabile, e questa è una notizia: chi si aspettava scheletrici arpeggi si ritrova destabilizzato da oblique imponenze orchestrali, chi attendeva il guaito belante rinviene un canto duttile e metamorfico. È il gioco delle parti. Stefano Rampoldi (di fede Hare Krishna) è solo l’involucro di un’anima che ha già affrontato molteplici reincarnazioni terrene, ed è come se una manciata di umani posseduti dal medesimo spirito dialogassero e interagissero fra loro, con inquietudini simili, punti di vista diversi, caratteri altalenanti. Ci sono l’io, il tu, il padre, la madre, i figli propri e i bambini altrui, l’uomo, la donna: non si tratta di personalità bipolare, ma di personalità e basta.
Adoperando la figura della donna - tema che ricorre dall’inaspettata copertina sino ai titoli dei brani - come mezzo e non come fine, violentandone l’essenza ma amandola senza ritegno, Edda dipinge acquarelli tenui che finiscono imbrattati di china, cosparsi di benzina, gettati in un cesso lercio e infine recuperati, più belli e vivi di prima. “Le strade / finiscono qui / va bene / ma masturbami / facciamo così” sono le prime parole di Emma, punteggiata di arpeggi e gonfia di archi che abbracciano. I cortocircuiti di Anna alla fine esplodono come nell’omonima battistiana, il tempo di (non) sapere il motivo per cui Edda odia i vivi nella title track che già il blues di Topazio si scarnifica dolcemente (“vedi di non rompermi i coglioni”). È lieve follia Gionata (scritta da Gionata Mirai del Teatro degli Orrori), al contrario della travagliata Marika (“ringrazia le puttane quelle ubriache come te / mi rendono la vita accettabile”) e de Il Seno, danza di vita e morte per cui gli Afterhours di oggi ucciderebbero. Il trittico finale, umanamente straziante, compie gli ultimi passi prima del baratro: non il lutto della fine, ma quello della rinascita terrena (“io già lo so che rinascerò / ma un altro corpo per favore no”). Omino Nero, allucinata invocazione al rovescio, la tetra Qui, ovvero l’identità stritolata, e infine il meraviglioso congedo – in tutti i sensi – di Tania, gonfia di fiati e grata a capo chino.
Odio i Vivi incute timore, imbarazza e genera stupore perché le inquietudini di Edda, semplicemente, non sono le nostre, né quelle delle nostre donne, dei nostri uomini, dei nostri bambini, delle nostre puttane. La cecità, alle volte, può essere peggio della pazzia.
“L’amore diventa MERDA / dopo due settimane / i miei amici hanno figli figli figli / io ho sempre fame.”
Tweet