Micah P. Hinson
Micah P. Hinson and the Pioneer Saboteurs
Mica è facile essere Micah. Tutti lì ad acclamarlo come se fosse il nuovo seminatore d'oro delle vecchie radici della nuova America rurale e musicale. A ripetergli che è il nuovo Dylan, il nuovo Cash, il nuovo questo e il nuovo quello. Pure noi c'abbiamo messo un po' del nostro per ingrossare questo fardello di elogi, ma d'altronde Micah P. Hinson and The Red Empire Orchestra era un tale gran disco, il degno compimento della trilogia dei Micah P. Hinson and.... Che poi, voglio dire, alla fin fine affari suoi! Grandi poteri, grandi responsabilità, come direbbe Stan Lee. Forse proprio per questo, per non rimanere impigliato nella tagliola dei paragoni e per sparigliare le carte in tavola, il ribelle Hinson s'è messo in testa di fare del nuovo album qualcosa di completamente diverso, come i Monty Phyton. Che poi, oddio, è più che altro un modo di dire, una dichiarazione d'intenti. Poiché nel quarto album semi-eponimo intitolato ...and the Pioneer Saboteurs c'è parecchio del Micah che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare, magari affascinato dal guardare oltre la siepe, nell'ottica di un orizzonte sonico più ampio del consueto.
Ecco allora tutto un fiorire di soluzioni strumentali ambiziose quanto irrisolte come l'ouverture per soli archi di A Call To Arms, brani che guardano alla soundtrack più che alla classica forma canzone come 2s And 3s, che parte lenta e chiesastica ma poi monta in un crescendo di barriti morriconiani e pallide rimembranze di Scott Walker, incroci fra country modernista e post-rock rurale come la solenne, caliginosa The Cross That Stole This Heart Away o il gospel da camera pungolato da dissonanze quasi concrete di She's Building A Castle In Her Heart, peraltro uno degli esempi più suggestivi. Per il resto brani del Micah più classico - i deliziosi sonetti campestri ed elegiaci di My God, My God, Take Off That Dress For Me e Seven Horses Seen - si alternano ad esperimenti meno convicenti come il tasso quasi electro e marziale della semi-strumentale Watchers, Tell Us Of The Night e il lungo e un po' autistico delirio finale di The Returning, dodici minuti circa, di cui otto di droni di feedback e altre scorie rumoristiche più un'appendice orchestrale. Manca insomma un po' di misura fra il vecchio Micah e quello nuovo che s'intravede dietro gli arrangiamenti più ostici e strutturati (in certi casi persino troppo pomposi: è il caso di The Letter At Twin Wrecks). Quella misura che ritroviamo ad esempio in un pezzo come The Striking Before The Storm, denso, concentrato, imperniato su una melodia/ritornello bella tonda ed ispirata, ma al contempo vibrante di varianti, di escursioni, di spiazzanti micro-uscite dal seminato del seminatore d'oro di cui parlavamo in apertura.
Una misura e una mira autoriale che il buon Micah, ne siamo quasi certi, avrà tempo e modo di aggiustare una volta archiviato questo, comunque più che dignitoso, disco di transizione. Dopotutto, come recita un'antichissima ballata anglosassone, “non ha trent'anni ancora”.
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