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R Recensione

6,5/10

Sharon Jones & The Dap-Kings

Give The People What They Want

La meritoria riscoperta delle tipiche sonorità black anni 60 (soul e r&b in testa) e il relativo successo presso nuove generazioni di ascoltatori nell’arco dell’ultimo decennio ha un nome su tutti: quello della Daptone. Aldilà del contributo dei vari cofanetti e anniversari celebrativi dei nomi storici della scena originaria, che pure non sono mancati in questi anni, l’etichetta di Brooklyn, sorta di piccola Tamla dell’era digitale e internettiana, è stata l’artefice più prestigiosa e riconosciuta di questo “ritorno al futuro”, revival della classicità pop-soul in un periodo in cui commistioni e contaminazioni sembrano mettere in discussione le caratteristiche “staminali” di qualunque genere (con l’hip-hop in prima fila, a fare da collante universale e ad assorbire tutto come una specie di blob amniotico), parallelismo musicale fra l’America kennedyana e quella obamiana, mutatis mutandis per così dire. Non solo operando nel solco derivativo delle sonorità ma aggiungendovi un investimento creativo ed un elemento di novità che ha portato alla rivelazione di un sottobosco di talenti nascosti (o altrimenti trascurati dall’offerta discografica) quali Charles Bradley, di cui elogiammo a suo tempo il sofferto esordio, The Daktaris  o Antibalas (anche se qui sconfiniamo decisamente in territori afro-beat), senza contare che perfino un disco simbolo del nuovo millennio come “Back To Black” della Winehouse fu registrato negli studi della Daptone con il contributo fondamentale della band di casa, The Dap-Kings appunto.

Anche se la vera portavoce, il verbo fatto carne, l’interprete più emblematica della seconda giovinezza ricevuta in dote da questo genere musicale è indubbiamente lei: Sharon Jones, voce clamorosa, quasi sessant’anni di esuberanza afroamericana, più della metà dei quali trascorsi invano nel tentativo di diventare una cantante professionista, fino all’approdo alla Daptone ad inizio anni duemila. Da allora cinque album cuciti su misura per lei dalla band del bassista Bosco Mann e del sassofonista Neal Sugarman (fondatori anche della label) e un culto che si è a poco a poco trasformato in un piccolo successo internazionale ( “I Learned The Hard Way”, del 2010, il punto più alto). Il nuovo lavoro, uscito nelle prime settimane di quest’anno, non si discosta molto dal quelli precedenti dove il ricalco di sonorità di stretta osservanza Motown viene esaltato dalla buona qualità della scrittura e dall’eccellente resa artigianale nell’esecuzione e negli arrangiamenti, con la corposa sezione di fiati (due sax, tromba e trombone) in evidenza a fare da ideale controcanto alla voce grintosa e trascinante della Jones, le chitarre in sordina e la forte carica ritmica impressa da Mann e dal batterista Steinweiss.

Qualità ben note agli appassionati e che tuttavia si rinnovano sorprendenti e contagiose nell’ottima doppietta iniziale: l’andatura stompin’  impettita da manuale e i coretti entranti sulla performance strepitosa della Jones in “Retreat!” e il groove diabolico e magnificamente costruito, nella sua semplicità, di “Stranger To My Happiness”; sulla stessa impronta tengono botta, sebbene con minore efficacia, anche l’r&b quasi jump della sussultante “Now I See” e la graffiante “People Don’t Get What They Deserve” che sfiora tematiche sociali.

Con invidiabile padronanza la Jones, rallenta un po’ il passo e si concede alle ariose melodie con raddoppi corali da girl-group di “Get Up And Get Out” e la più zuccherina “Making Up And Breaking Up” fino a palpitare nel calore confidenziale della bella “We Get Along” e “Slow Down, Love”. Una piccola incursione fuori dal classico seminato soul anni 60, la compie “You’ll Be Lonely” che introduce elementi afro-funky tipici del decennio successivo, percussioni a mano e un bizzarro assolo di tromba, consegnando al pezzo un andamento più obliquo ma comunque piacevole che “Long Time, Wrong Time” prova a replicare riuscendovi però solo in parte.

“Give People What They Want” fa esattamente quello che promette nel titolo: dà all’ascoltatore quello che si aspetta da un gruppo come Sharon Jones & The Dap-Kings e lo fa con canzoni di fattura nel complesso pregevole che hanno l’unico torto, forse, d’insistere troppo nella loro formula vincente e che dopo un’apertura molto efficace tendono un po' ad afflosciarsi per effetto della ripetizione. La Jones si conferma comunque all’altezza della sua fama e gli appassionati più nostalgici avranno di che godere dell’ascolto per una buona mezz’ora. 

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