Micah P. Hinson
Micah P. Hinson And The Red Empire Orchestra
Questo è uno che impalma la sua bella al termine di un concerto come Johnny Cash, che lotta contro la dipendenza dagli antidolorifici come Hank Williams, che, imberbe ed occhialuto com’è, ha un look da perfetto cowboy intellettuale, un incrocio fra il Dylan di John Wesley Harding ed Elvis Costello. Uno così, come direbbe Piero Ciampi, ha tutte le carte in regola.
E una volta tanto l’apparenza non inganna: quella di Micah P. Hinson, classe 1981, una decade vissuta pericolosamente fra arresti, ricoveri e bancarotte contraltare di una rigida educazione cattolica e, centrale in mezzo a tutto questo, la scoperta della musica quale lingua universale per dare voce ai dissidi e alle speranze del suo animo tormentato, è una storia già sentita tante volte, la parabola dell’ (anti)eroe americano per elezione.
D’altro canto non starò qui a spergiurare che abbiamo finalmente scoperto l’ultima identità segreta di Robert Zimmermann, un rimedio anti Smog, il disco perduto di Mark Lanegan o il figlio illegittimo di Johnny Cash, mi limito a constatare un dato di fatto: la permanenza di un disco del genere nella top ten di chiunque si occupi anche solo incidentalmente di musica alternativa si giustifica da se, basta ascoltarne 30 secondi, ma visto che ho un debito di riconoscenza nei confronti dei lettori di questo sito, anche stavolta mi toccherà tediarli con una descrizione.
Come Home Quickly Darling sembra un 78 giri che ruota sul piatto di un grammofono al culmine di una festa per la vendemmia, le guance arrossate dal sole e dalle mosche cavalline che sfiorano quelle delle fanciulle col vestito della domenica e un canto così basso che sembra arare i solchi del vinile, con la solennità d’un gospel fra i mulinelli dell’ hammond e i turbini della steel guitar.
Tell Me It Ain’t So ne riprende il tempo in ¾ per una specie di valzer pentecostale in crescendo corale su un tappeto d’archi spolverato dal mantice dell’organetto e dalle battute del piano. When We Embraced e Throw Me The Stone sono due metope bluegrass per banjo e chitarra acustica che s’installano alla perfezione in un angolino nell’ampia facciata di questa Versailles della “vecchia America contemporanea”. I Keep Havin’ These Dreams, invece, ne è l’architrave, il colpo da maestro: fuga in picking, ouverture orchestrale alla Penguin Cafè e voce sopraffatta dal sonno nel freddo mattutino che ti strappa dal caldo abbraccio di un’amante all’alba di un giorno da cani.
Sunrise Over The Olympus Mon è uno swinging concertistico che brucia in un tramonto di larsen. The Fire Came Up To My Knees, una trenodia osso di seppia vagita da un Cohen recalcitrante che fugge dal suo boudoir in fiamme. You Will Find supera se stessa: un climax sinusoidale quasi sinfonico, pianissimo e fortissimo, saliscendi fatti di pura catatonia jazzata e sfuriate bandistiche, come se Roy Orbison, mezzo cieco e incazzato nero, cantasse una canzone dei Tindersticks.
The Wishing Well And The Willow Tree è un lied honkytonk che volteggia tenebroso nel contrappunto di banjo e organetto, fregiato di strani riverberi distorsivi. We Won’t Have To Be Lonesome è una marcia nuziale che risuona in una chiesa del profondo sud a benedire l’unione di una coppia scampata al diluvio della tossicodipendenza, Dyin’ Alone, molti anni dopo accompagnerà il feretro dell’ultimo dei due che è rimasto in vita.
Da lei all’eternità: il futuro è suo.
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