R Recensione

6/10

Grails

Burning Off Impurity

Ah lievemente potessi distendermi, e lievemente riposare il capo

e lievemente dormire il sonno della morte, e lievemente udire la sua voce

di colui che cammina nel giardino nel tempo della sera...

(William Blake, “Il libro di Thel”)

Succede a volte che per ritrovarsi (fisiognomicamente), un gruppo decida di perdersi (musicalmente), sedere ebbro in attesa dell’ultimo treno di mezzanotte che lo conduca a specchiarsi, chissà dove, nell’aurora di una nuova consapevolezza o imboccare uno dei famosi wormhole, i ponti temporali di Einstein-Rosen, per annullare il continuum spazio-temporale, vestigia di ogni coercizione evolutiva, e ricongiungersi in un punto precipuo della semicirconferenza del passato.

Così è avvenuto anche per i Grails, quintetto strumentale di Portland scoperto da Steve Von Till dei Neurosis e autore, per la sua etichetta, la Neurot Recordings, di due album intrisi in atmosfere post-rock e slo-core come The burden of hope (2003) e Red Light (2004), quest’ultimo particolarmente apprezzabile per un’inedita fusione dei suddetti generi con un patrimonio rivisitato di temi tradizionali celtici e canti di lavoro. Nel breve volgere di due stagioni, a raffreddare l’entusiasmo dei cultori, è saltato fuori Black Tar Prophecies (Important Records, 2006), estenuante guazzabuglio free-form in grado di sortire al sottoscritto (e ai pochi altri che hanno avuto la malaugurata idea di sottrarlo all’oblio) il medesimo effetto collaterale che la Corazzata Potemkin causava al povero Fantozzi.

I tre volumi del concept di cui sopra dimostravano inequivocabilmente come i Grails, a furia di riscaldare il loro tè nel deserto tipo Paul Bowles, fossero rimasti intrappolati in una specie di letargo lisergico mentre davanti ai loro occhi ancora scorrevano i fotogrammi sovra-esposti di un super8 sugli albori della scena psichedelica (periodo 65-68) rimontato a Canterbury (periodo 69-72).

Se l’idea di adattare certo post rock, basato su lunghi cicli di improvvisazione che radiano le componenti strutturali dal loro centro melodico, ai cascami da acid rock e al modernariato psicotropo anni ’60 vi solletica brividi di repulsione al solo pensiero, allora vi consiglio di tenervi alla larga anche da quest’ultimo Burning off impurity (Temporary Recordings, 2007).

Sebbene, ad onor del vero, stavolta Alex Hall e i suoi abbiano dato un reciso giro di vite all’ipertrofico super-ego che tiranneggiava nel disco precedente, preferendo restringere le loro psico-navigazioni entro una forma-canzone estesa ma comunque intelligibile in proporzioni e minutaggio. Oltre tutto, pur non essendo canonicamente costruiti intorno ai riff, tutti i brani rivelano alla lunga un struttura simile per quanto elastica: incipit in contro-dissolvenza, corpo centrale bilanciato da stanze melodiche opportunamente espanse e finale in crescendo con relativa curva esponenziale di ritmica e volume. Nonostante l’autodisciplina, però, questi 50 minuti di musica ripartiti in 8 pezzi integralmente strumentali richiedono comunque una discreta mole di pazienza e disponibilità da parte dell’ascoltatore.

L’opener Soft Temple, ad esempio, col suo sitar gemente intinto nel laudano e le sue sfumature ellenico-mediterranee, dopo tre o quattro passaggi si avvinghia ai tuoi recettori come un trip calato fra le rovine di un’acropoli. Silk Rd è invece un interessante intruglio di ritmiche jazz concentriche (con la batteria di Emil Amos in regale parata) e trance progressive, rimescolato da raga orientali sincopati che a tratti sembrano usciti dagli happening dionisiaci dei primi Doors.

Drawn curtains è ingentilita da un lucido manto di rugiada melodica che gocciola insistente dal violino solista che fu di Timothy Horner, talora voluttuosamente accarezzato dall’archetto, talora pizzicato in modo distratto. Outer Banks, dopo un prologo attraversato da perturbazioni cosmiche,

si attesta su periodici saliscendi sinusoidali, levare soffusi in punta di bacchetta e i soliti arpeggi psicoattivi di Hall e Zack Riles. Dead wine blues tenta di introdurre qualche novità nella monotona stratificazione delle tracce precedenti destreggiandosi in sella ad una ritmica country che qua e là si spezza in digressioni jazzistiche o viene sottilmente trafitta da archi impalpabili.

Origin-ing ribolle di twang infervorati al calore di lingue di fuoco indie-noise;atmosfere nevrotizzanti si affacciano su baratri scavati da break silenziosi profanati da una stridente armonica alla “C’era una volta il west”.

Un basso, ora invisibile e sottocutaneo, ora enfiato da cariche magnetiche è il paradigma formale più inquietante e rivelatore di un album sospeso fra visioni e oscurità, criptici aforismi sonori e pallide, ingannevoli purificazioni. Burning off impurity è una specie di summa e di punto di non ritorno, una stiva marcia tappezzata con le pagine del diario di bordo approssimativamente vergato dal gruppo durante questo loro “viaggio allucinante”.

Come una setta di hippy bucolici che distrattamente presta orecchio ad immaginari versi di Virgilio pronunciati ad alta voce dal dott. Hoffmann durante uno dei suoi rinomati esperimenti.

V Voti

Voto degli utenti: 9/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Nadine Otto alle 8:24 del 25 maggio 2007 ha scritto:

Recensione intelligentissima! La richezza di parole fa venire voglia di ascoltarlo anche se ha solo tre stelle...

Ivor the engine driver (ha votato 9 questo disco) alle 16:45 del 12 ottobre 2009 ha scritto:

cazzo simone grandissima recensione! A me poi sto disco fa eiaculare copiosamente, non lo trovo per niente palloso, Black Tar posso capire e anche i successivi, ma questo è perfetto!