Wild Nothing
Gemini
Di rivisitazioni del pop indipendente anni ‘80 ultimamente ne sono uscite a bizzeffe, ma forse ancora nessuna con la copertura di questo “Gemini”, pubblicato a nome Wild Nothing ma interamente scritto da Jack Tatum, dalla Virginia. Gemelli, ad ascoltare, pare che siano l’oggi e lo ieri, tanto il tempo sembra essersi fermato al 1988 e dintorni: le dodici canzoni formano un Bignami sospeso tra pastelli jingle-jangle e morbidezze electro-pop, Cocteau Twins incrociati ai Field Mice e filtrati da suoni Slumberland, con quel gusto di annacquare melodie sognanti in strati gentili di rumore che allora era la modernità. Oggi è cosa tritissima, ma comunque capace di entusiasmare.
Perché, alla fin fine, in questi anni myspaceosi e Ipoddofili in cui è la singola canzone a fare testo più del disco intero, se un album infila almeno 4-5 grandi pezzi è già degno di massima stima, mancasse anche di tutte quelle qualità ‘strutturali’ che ci vogliono per fare un grande disco. Ecco, sia chiaro: quelle qualità, qui, mancano. “Gemini” scorre discontinuo e zoppicante, intrecciando generi e rimandi senza ordine, procedendo in modo disorganico e con l’unico fil rouge di un citazionismo alla luce del sole, e non si fa neppure mancare cadute semi-dilettantistiche da skippare senza remore (“The Witching Hour”, gioco eccessivo con il lo-fi e le stonature, ma anche pezzi come “Drifter” e “Pessimist” si sciolgono dopo due ascolti).
Epperò. Poi si incappa, a disco già avanzato, in una “Chinatown” deliziosa, e la tentazione di storcere il naso si volatilizza all’istante: screziature da synth-pop estremo-orientale stile Erasure, melodia dreamy killer, basi eighties pura, e non ce n’è per nessuno. Ed è questo quanto “Gemini” può offrire: una manciata di pezzi pop eccellenti. Come la title-track, in odore di New Order con tanto di Hook al basso, o come “Summer Holiday”, che impressiona da quanto sembra un out-take dal disco dei The Pains Of Being Pure At Heart. “Bored Games”, poi, si distende su campate electro-shoegaze che funzionano da ricostituente, come dei Cold Cave anestetizzati con le caramelle (e con gli M83), mentre “Confirmation” unisce The Wake e The Cure in una miscela solo un poco lo-fizzata. Ma forse l’apice è “O Lilac”, cioè Bradford Cox che si applica su una melodia dei La's, o roba simile. Insomma, uno spettacolo pop di quelli da cantarsi dalla mattina alla sera.
Per nostalgici e per chi si accontenta di togliere i brani migliori dai dischi così così. Cioè, a ben vedere, per molti.
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