Late of the Pier
Fantasy Black Channel
“Find yourself a new boy!”. Il giocattolo del ventunesimo secolo. Darwinismo al contrario: striscia evolutiva che seleziona e preserva i caratteri meno rilevanti di una specie. Il superfluo. Tiranno Charles, santiddio. Un dolce/apocalittico futuro mai/ancora non arrivato di cui ora ci si diverte a inscenare l’approdo invisibile. La trasfigurazione del nu-rave in fumettone sci-fi, (il)logica progressione naturale dal glam-rock più eretico (“Aladdin Sane”, “Here Come The Warm Jets”) a quel synth-pop innervato di “esotica” fascinazione per il cibernetico. I Duran Duran e Brian Eno a braccetto, forse. Anzi no, riproviamo: un cocktail “acidognolo” a base di Gary Numan, Yes e Sparks versato sullo scheletro ritmico dei Franz Ferdinand? Già meglio. Suono dai mille volti, tutti ugualmente possibili.
Come una nuova stirpe di glabri bambolotti armati di bomboletta spray, i Late Of The Pier atomizzano le infrastrutture della pop song, filmano la deflagrazione e, irriguardosi, pigiano il pulsante riavvolgimento rapido. Tecnologizzano il versante ludico, giochicchiano con il cut-up e arzigogolano lo svolgimento dei brani, modellandone i risvolti secondo una nuova luce diamantina. Infine chiamano a rapporto il magnifico Erol Alkan a produrre, rivestendo così di scintillante scorza post-moderna la proposta dello “Zarcop Demo” di due anni fa, ora portata a nuova vita. Piantiamola quindi con questa storia dei ragazzetti alle prime armi o dell’ennesimo caso creato dalla stampa: il gruppo è in circolazione dal 2001 (da quando erano in fasce, in pratica), e se si è conquistato un seguito non è stato certo grazie ai titoloni di NME. Meglio tacere poi su eventuali rimandi ai Klaxons, band di una pochezza imbarazzante che con i Late Of The Pier c’entra poco o niente.
Sì, perché a parte il flanger a palla e le comuni origini dance-punk, il gruppo di Castle Donington vanta un fantastilione di idee, competenza, talento: tutto ciò che i Klaxons non hanno. Tanto per dire: il leader Sam Eastgate avrà sì e no l'età per la patente e già suona di tutto e di più, firma da solo l’80% del materiale e monopolizza le esibizioni live con una voce estremamente duttile, capace di passare senza colpo ferire dal baritono di un Peter Murphy al falsetto “gender-free” di Russel Mael. Dei suoi compari “drughi” (tutti comunque impeccabili) è soprattutto il bassista Andrew Failey a movimentare questo “Arancia Meccanica” in salsa punk-funk : robotico e distorto, spesso doppiato da un synth marmoreo (le squadrature in stile Tubeway Army di “Space & The Woods”), il suo strumento sfoggia timbriche sempre nuove, sempre efficaci. È anche merito suo se “Fantasy Black Channel” suona come uno dei dischi pop più astrusi, complessi e splendidamente confusionari della decade; superbo poster virtuale che fa’ oggi (in realtà sono già quattro mesi che è uscito, scusate il ritardo…) la sua comparsa sugli schermi al plasma del nostro proto-presente.
L’album definitivo che si aspettava. Un disco che ingloba tutti gli sforzi dell’indie-rock odierno per uscire dai suoi cliché, nel tentativo di emanciparsi tanto dai modelli dominanti in ambito “nu-new wave” (Talking Heads, Television, Gang Of Four) quanto da consuetudini strettamente electro ormai maleodoranti. Un impatto equivalente a quello avuto dall’esordio dei Mansun sulla scena brit pop dei ‘90s: coacervo di forze complementari che si muovono verso l’indefinito; condensato barocco e sfarzoso di spinte centrifughe. Irritante, in apparenza. Forse saccente, ma più che mai intelligente e ispirato. Qualità che si notano fin dall’introduzione “Hot Tent Blues” e i suoi marziali chitarrismi “epic-glam” (Steve Hunter & Dick Wagner duellanti sul suolo marziano?), e che “Broken” conferma con una seconda parte condensante umori fantastici alla Yes (le peripezie “jazzate” da 2:50), tastierine cheap, tempi dispari e loop a singhiozzo.
Il punto è che ogni brano è talmente colmo di particolari e trovate da lasciare candidamente storditi, sia che si tratti dei crismi disco-punk più catchy e (incredibilmente) prog di “Heartbeat”, sia che a tenere banco sia l’“etno-electro” dal sapore retro-futuristico “The Bears Are Coming”, spazialità “exotica” bucherellata di demenza Devo; o ancora il sinfonismo androide dello strumentale “VW” in cui precipitano segnali noise-rock e tristi “musical boxes” elettrificate. “Whitesnake” potrebbe essere addirittura la loro versione (ultra-kitsch) del punk-rock, laddove “Focker” resta roccioso “schizo-dramma” imbevuto di fantascientifica "metallosità" (negli ultimi trenta secondi, poi, pare di sentire Grandmaster Flash che rimette in circolo il riff da due giradischi sfasati di pochi millesimi di secondo!).
La suprema “Bathroom Gurgle” si presenta, invece, come epopea estasiata e estasiante di non-linearità narrativa. Sette densissimi minuti in cui sfila di tutto: dai giardini artificiali di John Foxx (periodo “The Garden”, per l’appunto) a fugaci visioni “neworderiane” di tastiere, dai saliscendi glam-rock di casa Sparks a quell’irresistibile fanfara che distilla dai Buggles la più pura esaltazione edonistica: “So put your hands on your waistline/ And move your body to the bassline/ And get your hands on some cheap wine/ And get out, a get out and get the motherfucking…” (Yeah!). E dopo il ballo sfrenato, un coda acustico vagamente lo-fi troneggiato da un theremin che richiama alla memoria i paesaggi dei film horror di Roger Corman, tanto per chiudere il tutto con un pizzico di mistero.
Piatto ricco questo “Fantasy Black Channel”. Un disco così “colmo” da strabordare, eppure coeso dalla prima all’ultima nota. Un uragano racchiuso in una lattina di coca cola. Non un calo di tensione, non un cedimento strutturale: ogni melodia va a segno e ti si scolpisce in testa. Persino quando si abbassa leggermente il tempo (“The Enemy Are The Future”) e si giunge dalle parti di una mongoloid-disco jam tutta scatti repentini e arresti aritmici (i Roxy Music di“Bogus Man” a duettare con Kevin Ayers sotto la guida sicura di Trevor Horn?) si tocca un altro vertice di sapienza strumentale e compositiva (ma che lo dico a fare?). Un disco da celebrare, come i nostri (confusi) tempi, troppo spesso bistrattati. Li rimpiangeremo.
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