Everything Everything
Man Alive
Everything Everything è un quartetto di Newcastle, esaltato da NME e massacrato da Pitchfork, nel solito gioco di Yin e Yang che ben conosciamo. Il relativo album di debutto è opera meritevole di alcune riflessioni: come la maggior parte dei prodotti che si ostinano a mantenere intatta la propria riconoscibilità british, "Man Alive" offre un sound hi-tech e una serie di strutture labirintiche, che rischiano però di inficiarne la vendibilità.
Tre i titoli alternativi britannici che hanno spopolato in patria nel 2009-2010: il debutto degli XX (opera tanto scarna da aver colpito anche una critica sempre più allergica alla teatralità di derivazione brit-pop), "Sigh No More" di Mumford & Sons (praticamente una cover band di Springsteen: United Kingdom quanto potrebbe esserlo Tom Joad) e "Only Revolutions" dei Biffy Clyro (revival grunge). In un mercato che sembra quindi rigettare la propria natura e cannibalizzare suoni o attitudini in tutto e per tutto americani, sia a livello di rimandi, sia a livello produttivo (una sterile professionalità che rifiuta il lavoro d'intarsio), lo spazio per band come Everything Everything appare sempre più risicato (al momento, il disco ha compiuto a stento un'apparizione in top-20).
L'introduzione è affidata a "MY KZ, UR BF": convulsa e catchy, la si potrebbe additare sbrigativamente come "Shock The Monkey" del nuovo millennio, ma sarebbe un peccato non prestare attenzione al background strumentale (il tempo dispari, i richiami etnici resettati da reiterazioni minimaliste, la levigata chitarra che svisa raddoppiando la marimba) e agli arrangiamenti vocali (quattro linee ognuna con una propria velocità e modalità espressiva).
La band indica Steve Reich e Beyoncé fra le proprie influenze, e leggendo fra le righe si rintracciano non solo le partiture minimaliste del primo, ma anche la patina produttiva e il timbro new r&b della seconda. Il resto del sound fissa le coordinate in GB, poggiando sul math-pop tipico di band come Bloc Party e Friendly Fires, e andando più indietro sul post-rock geometrico e estatico di Long Fin Killie e Stereolab. Anche la voce di Jonathan Higgs è al crocevia fra quella di Luke Sutherland dei Long Fin Killie e quella di Kele dei Bloc Party, due neri dal timbro bianco che Jonathan, bianco per davvero, rischia di superare di slancio quanto a suggestioni black.
I detrattori accusano "Man Alive" di accumulare troppe influenze, rimanendo stordito al crocevia di mille direzioni senza risolvere nulla, ma a ben vedere le fonti sono in numero finito e facilmente delimitabili: quello della band è in sostanza un coacervo indie-pop che include toni soul e strutture spigolose-circolari (minimalismo, post-rock, eccetera). Sono impianti per certi versi antitetici, ma inglobati seguendo meccaniche precise (e volendo, inedite), lungi dall'affastellamento casuale. Riguardo al retrogusto progressive: essendo i Long Fin Killie ben piantati in quell'universo, non si può pretendere che la band che ne prosegue il discorso non ne risenta, volontariamente o meno.
Il vero tratto distintivo è rappresentato dalla qualità camaleontica delle strutture. "Qwerty Finger" muta da post-punk tirato a celestiale paesaggio di synth ronzanti e organo a canne, le fondamenta di "Suffragette Suffragette" (un reticolo di terzine per chitarra-e-basso all'unisono) sono continuamente scosse da martellamenti tellurici, "Two For Nero" procede per metà della durata come canone per voce e clavicembalo salvo sfaldarsi/reinventarsi in corale tinto di soffici batterismi jazz, la marcetta freak e apparentemente sbilenca di "Photoshop Handsome" avrebbe potuto essere inascoltabile e invece, con imbarazzante disinvoltura, sfoggia un ritornello da cantare in coro.
"Final Form" poggia su una morbida linea chitarristica reiterata, che porta la struttura in accumulo, fino all'elevazione del refrain, con il synth-organo che danza fra i due canali e la voce che sale verso il paradiso. E' uno dei brani più originali del disco e rende una volta per tutte evidente la cifra Everything Everything.
Alex Robertshaw è un chitarrista inafferrabile: predilige fraseggi puliti, con richiami tanto Yahn Leker quanto al cerebralismo distorto di Robert Fripp ("Qwerty Finger", "Photoshop Handsome" dai 2'37'' in poi, gli schizzi atonali di "Come Alive Diana" a 2'00''), ma è anche capace di piazzare un meccanismo a incastro come quello di "Final Form". Niente power chords, niente rifferama (anche quando pesta sul distorsore, come nel chorus di "Suffragette Suffragette", riesce a costruire un groove math tutto giocato su progressioni inusuali), mentre emergono parvenze jingle-jangle profumate di Africa (suggestione etnica che riporta di nuovo ai Long Fin Killie). Un suono piuttosto compresso (come si evince dagli accordi pungenti di "Schoolin'"), in pratica una seconda voce solista nell'economia dell'ensemble.
Anche gli altri strumentisti mostrano un approccio niente affatto scontato: le linee di batteria di Michael Spearman, di formazione jazzistica, suonano spesso sghembe (il loop guida della ballata "NASA Is On Your Side" è la mutazione in senso schizoide delle sincopi swingbeat), mostrandosi abili nel gestire con nonchalance tempi dispari piuttosto complessi (la trionfale "Weights"); il basso assimila ombre distantissime (i passi dub di "NASA", il funk ruffiano di "MY KZ, UR BF”); le tastiere fungono da collante armonico - compito che non può svolgere la chitarra, troppo presa dalle sue evoluzioni - e rivestono quindi un ruolo imprescindibile, anche da punto di vista timbrico (la capacità di richiamare tanto il brusio di un Farfisa quanto la solennità di un organo o la delicatezza setosa di suoni ottenibili forse soltanto con un synth Nord Lead). Quest'aspetto si svela in particolar modo nella soffice "Tin (The Manhole)": il puntellare di marimba è la tinta pastello in un disegno di voci angeliche che si avviluppano e si dissolvono, tutto è gioco di eco e tastiere, indie-soul bianco per camerette dell'era spaziale.
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