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R Recensione

5,5/10

Peaking Lights

Cosmic Logic

Dagli scantinati e dalle forme weird più oscure e sperimentali di 5-6 anni fa i Peaking Lights ne hanno fatta di strada, e se già “Lucifer” (2012), rispetto al loro disco migliore (“936”, 2011), rivelava una maggiore apertura al pop e alla forma-canzone, questo “Cosmic Logic” offre un ulteriore salto verso l’orecchiabilità. Le lunghe jam di sbrodolata neo-psichedelia infarcita di derivazioni dub e a stretto contatto con le visioni hypna di qualche anno fa sembrano un remotissimo ricordo. Come già era emerso da qualche mix condiviso negli anni scorsi, il duo del Wisconsin pesca ora a piene mani dall’elettronica anni ’80 e da un immaginario di colorato electro pop retrofuturistico, tagliando il minutaggio e conferendo alla voce di Indra Dunis un ruolo decisamente maggiore rispetto agli album precedenti.

La novità, apprezzabile nell’intento, non si fa invece molto gustare quando si preme play: le textures dei brani si sono drasticamente semplificate, con la chitarra ridotta a un ruolo quasi ancillare (fa eccezione l’extravagante apertura “Infinite Trips”) e il basso sempre riprodotto dal synth, mentre a dominare e a tracciare i profili delle canzoni sono bleeps digitali e screziature di synth. Tutta la fisica sinuosità dei pezzi più luminosi del duo americano si irrigidisce in linee dure, come inserita a forza in uno schema di Pac Man (“Telephone Call”, “Everyone And Us”, “Breakdown”), e la stessa voce si fossilizza spesso in tonalità atone e quasi aliene.

La trasformazione convince solo in poche eccezioni (“Hypnotic Hustle”, “Bad With the Good”), oltre a lasciare scoperta qualche zona, nella quale riemergono come tic i movimenti ciondolosi e drogati del passato (notevole “Eyes to the Sea”, che comincia dove era finita “Summertime” in “936”; non a caso, si tratta della traccia in cui la voce della Dunis torna a ricamare soltanto, senza essere il centro del quadro). Nel complesso, se la voce fosse tagliata quasi del tutto, anche per la banalità a tratti sconcertante dei testi (“New Grrrls” su tutte), il disco ne guadagnerebbe non poco (vd. l’esempio di “Dreamquest”, da salvare proprio nelle parti strumentali), ma finirebbe comunque invischiato nelle gabbie di un genere che non sembra quello ideale per Aaron Coyes e moglie.

L’impressione è che i Peaking Lights abbiano puntato sui numeri sbagliati; la speranza è che i loro, di numeri, non li abbiano persi del tutto. Intanto, questo disco suona come un mezzo fallimento.

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