Seabear
We Built A Fire
È stato uno dei filoni più prolifici della seconda metà del decennio 00, quello folk rustico, che, prendendo un po’ dall’indie pop continentale e un po’ dagli archivi freak tra sessanta e settanta, ha colorato, a ritmo di violini e fisarmoniche agrodolci (Beirut!), deliziosi bozzetti pastorali. Gli islandesi Seabear, guidati dal prolifico Sindri Már Sigfússon (il suo progetto Sin Fang Bous, datato 2009, non era male), si erano uniti alla compagine due anni fa con “The Ghost That Carried Us Away”, ed era stata una gloria in minore da godersi in mattine di domenica sonnacchiose. “We Built A Fire” prosegue la linea (si sfocia, dunque, nella domenica pomeriggio) in perfetta continuità, rafforzando, al limite – e la cosa non stupisce –, la componente corale (un nome qualsiasi della recente America barbuta e weird, come riferimento, andrà benissimo).
La declinazione del folk pop dei Seabear tende di più alla sfera del malinconico, o quanto meno del disincantato, che a quella del festoso: i Fanfarlo, insomma, sono a debita distanza, tranne che in qualche passaggio un po’ più strutturato (vd. la conclusiva “Wolfboy”). Anche quando viene calata la carta dell’idillio rustico, tra formicolii di glockenspiel, trombe pitte a tinte vivaci, un piano melodico e violini zingareschi, la voce di Sigfússon tende sempre a far piombare in basso il volo dell’aquilone, fino a fargli lambire la finestra della propria cameretta. Chamber folk, dunque? Sì, nel senso che si respira aria intimistica piuttosto che da baccanale per fricchettoni, pure dove i ritmi sono alti e si potrebbe tentare qualche passo di danza (“Wooden Teeth”, “In Winter Eyes”, la spassosa “Lion Face Boy” in apertura).
E poi, coerentemente, ci si inoltra spesso in ballate caracollanti (“Leafmask”), intrecci di cori che sembrano invocare Morfeo (“I’ll Build You A Fire”), lentissime elegie destinate, dopo qualche minuto, a sciogliersi in crescendo ricostituenti a base di archi e batteria scalpicciante, senza che sempre si raddrizzi l’entusiasmo (meglio “Cold Summer”, emozionante nelle tinte autunnali finali, di “We Fell Off The Roof”). C’è materiale, voglio dire, per qualche sonnellino di troppo (il poveglio della domenica pomeriggio, appunto), in un disco tanto poetico quanto poco reattivo nel cercare qualche via di fuga rispetto al canovaccio previsto. Bastano anche soluzioni semplici, eh: la sega ad arco immersa in un'ubriacante pioggia di piano (così in “Fire Dies Down”) o un cozzo distonico tra i soliti violini e i graffi, per una volta isterici, dell’elettrica, in una furia di piatti e cimbali (così in “Warm Blood”, il pezzo più sofferto, e certo il più intenso).
E però il disco si ascolta con piacere, anche se mancano momenti memorabili: la domenica pomeriggio è pur sempre meglio del lunedì mattina, no?
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