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R Recensione

6/10

An Pierlé & White Velvet

Hinterland

Gent, Belgio. Città di canali, nebbie, chiese gotiche, nuvole veloci. Dove le Fiandre si sporcano. An Pierlé non poteva che essere una sua creatura. All’attivo da più di un decennio, la biondissima cantautrice fiamminga ha sempre coniugato, nei suoi dischi, un istinto pop sorgivo e un’attitudine arty imprevedibile e nervosa, che scorre sottotraccia in tutti i suoi dischi, avvelenandoli; e così il suo apice, “Helium Sunset” (2002: un disco all’altezza del migliore songwriting al femminile del decennio), sembrava uscito, a tratti, da una Beth Gibbons o una Tori Amos mitteleuropee, più spigolose e umorali. Vi si trovavano le acque e assieme le linee dure di quella città.

Dopo una pausa di quasi cinque anni dovuta alla nascita della figlia con il compagno nella musica e nella vita Koen Gisen (White Velvet è, in sostanza, lui), “Hinterland” riporta una An Pierlé in buona forma, più diretta rispetto ad alcune sperimentazioni del passato, ma (quasi) mai banale. Molto meno centrato sul piano (che la Pierlé suona seduta su un’enorme palla: tanto per dire il tipetto) e più guitar-oriented, il disco si muove sempre piuttosto eclettico: la costante melodica è onnipresente, ma declinata in direzioni diverse, solo sporadicamente in linea con le trame più dark e sfilacciate delle sue cose migliori.

C’è il passo country (ma targato UE) di “Lonely One And Only”, la giostra ammiccante di “Little By Little”, l’introversione pop di “Broke My Bones”. Si dà il meglio sulle ballad dell’oscurità (“Fort Jerome”), sulle sfocature da St Vincent imbronciata (“Hide & Seek”) o sulla fumosità tra Mazzy Star ed Elysian Fields di “Where Did It Come From?”, con la fisarmonica a ubriacare a metà pezzo. Raramente si destruttura (le robotiche di “Everything Is New Again”, i tribalismi di “Wakey Wakey”), e sempre con cautela, ed è un peccato, perché la Pierlé è una che quando osa convince. Sempre curatissimi, in ogni caso, gli arrangiamenti di Gisen, con infilate di organo, campanelli e synth calibrate con cura, anche se con un’inventiva meno intrigante rispetto ai primi dischi.

Probabile che An Pierlé resti nell’hinterland musicale, all’immediata periferia dei nomi più chiacchierati, soprattutto dopo un album sincero ma troppo poco coraggioso come questo. In un anno di suburbi imperanti, comunque, è un isolato che vale la pena visitare.

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