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R Recensione

7/10

Tropic Of Cancer

Restless Idylls

Figure del dark crescono. Attiva dal 2009, Camella Lobo, in arte Tropic Of Cancer, aveva pubblicato, prima di questo debutto sulla lunga distanza, soltanto singoli (l’esordio “The Dull Age/Victims”, 2009) e soprattutto ep (con l’apice di “The Sorrow of Two Blooms”, 2011, sempre su Blackest Ever Black), ma il suo culto aveva già una base discretamente appassionata, tanto (almeno) da esaurire in tempi brevissimi ogni sua uscita. “Restless Idylls”, già sold out in pre-ordine, è la conferma di una nuova ‘black star’, ma non ancora di un nuovo talento.

Come in ogni produzione di ascendenza dark wave che si rispetti, nella musica di Tropic Of Cancer c’è il desiderio (fino all’ossessione) e c’è l’impossibilità di appagarlo. Gli idilli sono inesausti, privi di vera tregua, e diventano, perciò, una condanna. Elegia, più che idillio, è il pezzo di apertura, “Plant Lilies At My Head”: una specie di Grouper che vocalizza sopra (appunto) “Elegia” dei New Order. I synth sono rarefatti, creano nebbie, e una sorta di intontimento ipnotico, dal quale i pesantissimi beat di “Court of Devotion” (so Cure) scuotono solo in parte: non appena attacca il basso si rientra in un altro scurissimo loop, mentre la voce sempre molto distante della Lobo aiuta a rimanere in uno spazio umido e senza redenzione, doom pieno (“Wake The Night”).

La decadenza è garantita, e l’effetto replica ‘80 è evitato attraverso un approccio più aereo e meno asfittico; più ambient, si direbbe. Anche dove batte un grigio motorik inciso dalle derelitte note di una chitarra si viaggia con l’aria in faccia (“Hardest Day”), addirittura riprodotta a livello sonoro nel tribalismo del buio finale (“Rites of the Wild”); d’altronde la Lobo ha dichiarato che il disco, pur essendo un omaggio alle persone scomparse (in vario modo) dalla sua vita, è anche un modo per fuggire dall’abisso e dalla depressione, sicché cadono in questo disco le cose più energiche a nome Tropic Of Cancer (“More Alone”) e quelle più dreamy (“Children of a Lesser God”, dove le tastiere volano alte e la chitarra disegna, nitida, figure aeree da Slowdive in pace con il mondo).

Fuori dal circuito dei soli iniziati mi sembra che alla Lobo manchi ancora, per essere grande, l’originalità di alcuni suoni. Tutto il resto, dannazione e gigli, c’è.

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