Beirut
The Rip Tide
C'era voluto poco tempo per conquistare i Balcani ("Gulag Orkestar") e noi con loro avrebbero potuto dire i Beirut, nel 2006; ancora meno per la Francia di Yann Tiersen ("The Flying Club Cup"), saloni aristocratici e scorci romantici, nel 2007, appena un anno dopo. Poi una pausa, silenziosa e malinconica come la strada dopo una parata in festa. Le tende noi le abbiamo comprate, nel frattempo, e scarpe e zaini da campeggio, in attesa di un loro segnale, un indizio di viaggio per tirare fuori il nasone dalla porta di casa; e il preludio alla partenza viene lanciato così, inaspettato, in un "Live At The Music Hall of Williamsburg" (2009) che ci porta dritti nel quartiere portoricano d'America, "East Harlem", tra trombe e tromboni che si stiracchiano, ritmo lievemente sostenuto dal pianoforte e voce ancora nel tepore sonnecchiante. Il singolo che tutti aspettavano? Non del tutto: Beirutiano al 100% senza stravolgimenti di sorta e sufficiente fin da subito a destare l'interesse dei più, il brano affonda pian piano nella mosceria della mediocrità, e dopo un primo momento di entusiasmo generale cede presto il passo a un pizzico di sale e delusione, nascosta dai più con sorrisi sghembi poco convincenti.
L'impressione del caso fu del più classico dei mezzi passi falsi (tutto intero sarebbe troppo), mitigato allora da una non-copertina (scopriremo dopo) che non lascia scampo ai sorrisi, quelli veri (http://imageshack.us/photo/my-images/560/beirutalbumart.jpg/). Passa altro tempo, escono nuovi Sufjan Stevens, The National e Bon Iver che per la gioia dei nostri nuovi scarponi ci portano a spasso tra il Vesuvio, l'Ohio (due volte) e il Minnesota finché in questo torrido mese d'Agosto "The Rip Tide" emerge dalla bassa marea. E ci racconta del Nuevo México così com'è, con le sue steppe, il suo Four Corners e i suoi nuovi Hidalghi, non a parole, ma con i suoni a tratteggiare leggermente i contorni dello Stato americano. E la sensazione, prima fra tutte e nitidissima, è di aridità a perdita d'occhio: se la piacevole "Santa Fé" c'inganna con quella fisarmonica ferrosa in apertura e quel suo andamento da marcetta divertita, e "A Candle's Fire" scorre via spensierata in mezzo ai richiami acuti di ottoni e alla voce crepuscolare di Zach Condon (leader del gruppo), "Goshen" e "Payne's Bay" (oltre alla già citata "East Harlem") preannunciano un rapido declino, con la prima che sembra non decollare mai nel suo stancante duetto voce-piano, diluito poi alle trombe e alle percussioni, e con la seconda a sfruttare i violini per aprire una lenta e noiosa ballata, ripetitiva persino nel testo ("Headstrong today, I've been headstrong...", ribadito fino alla morte, nella seconda parte); insomma, il fascino del decadente senza il fascino.
Quel che resta dell'album, purtroppo, si spalma sulle medesime, banali, sonorità pop-oriented, nella mollezza esangue più totale di "The Peacock", così come nella povertà compositiva di "Vagabond" (spaesata per davvero), sostenuta fortunatamente da una gradevole ripresa Tierseniana per fisarmonica e hand-clapping; a salvare qualcosina ci pensa "The Rip Tide", col suo azzeccato ritornello melodico al tramonto e la voce di Condon per la prima volta davvero coinvolgente ("And this is the house where I, I feel alone, feel alone now / And this is the house where I could be unknown, be alone now / So, the waves and I found a rolling tide / So, the waves and I found a rip tide" sono versi che vengono dal cuore, si sente).
Per farla semplice, a "The Rip Tide" mancano fondamentalmente due cose: i singoli di "The Flying Club Cup" (solo tra "Nantes", "Cliquot", "In The Mausoleum" ce n'è per un'intera stagione) e la solidità compositiva di "Gulag Orkestar", vero capolavoro dei Beirut, un tripudio di world-music e folk d'altri tempi (e sì, "Postcards From Italy" è veramente qualcosa di troppo bello). Insomma, quando la nostra banda di paese preferita si dà alla siesta, non ci resta che assecondarla...
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