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R Recensione

7/10

Sóley

Theater Island

Nell’avvicendarsi caotico di nuove uscite, streaming in anteprima, download più o meno illegali e ricerca costante di relative tecnologie (ma come diavolo si usano ‘sti torrent?), il rischio è che non si trovi il tempo per dedicarsi alla cosa più importante: ascoltare. Uno dei risultati peggiori di questa cronica mancanza di tempo potrebbe essere quello di ritrovarsi tra le mani un disco minuscolo come questo, leggere sul retro una serie di cognomi che terminano in “òttir”, “dòttir”, pensare velocemente a Bjork e Sigur Ròs e archiviare il cd tra quelli che “prima o poi ascolterò”.  

Poi passano i mesi e quel dischetto (sei brani per 20 minuti appena) lo rispolveri per caso o perchè le nuove uscite “di rilievo” del periodo sono noiose come una conferenza stampa di Rutelli, e scopri un piccolo tesoro di grazia e magia. Lei si chiama Sòley Stefánsdóttir, ha appena 23 anni ed è la pianista del collettivo islandese Seabear. Di islandese, a parte l’inevitabile cognome, conserva la tendenza verso atmosfere invernali e caliginose, condotte però sotto forma di dialogo tra voce e pianoforte, elementi essenziali in costante e reciproca rincorsa.  

Dutla” immette chitarre circolari in un sottofondo vocale appena sussurrato, creando un bozzetto molto simile a quelli creati dai Retsin di Tara Jane O’ Neil, ma è con le successive “Kill The Clown” e “Theater Island” che il folletto islandese prova a staccare la nutrita schiera delle concorrenti (non ho detto Soap & Skin, anzi sì l’ho detto): la prima è una melodia sospesa tra amore e morte, fragile come una foglia autunnale e per questo sorretta con forza da liquidi interventi di pianoforte. La title track concede qualcosa di più al ritmo, creando una danza dolce e malinconica, simile alle vecchie fotografie ingiallite musicate da Yann Tiersen qualche anno fa. Il pianoforte questa volta accompagna con discrezione qualche vibrante nota bassa e un vivace scalpiccìo ritmico.  

Blue Leaves” torna ad essere una tenue ballata piano e voce in pieno stile “nord-europeo”, con quell’atmosfera glaciale squarciata nel finale da alcune belle soluzioni vocali, mentre la successiva “Read the Book” aggiunge una cadenza cinerea triste e seducente come il miglior Matt Elliott, così come affascinante – pur essendo molto semplice – è la chiusura affidata al mesto carillon di “We Will Put Her In Two Graves”.  

Ovvero, come essere adorabili senza sorridere mai.

V Voti

Voto degli utenti: 5,5/10 in media su 2 voti.
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gull 6/10

C Commenti

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gull (ha votato 6 questo disco) alle 19:42 del 18 settembre 2010 ha scritto:

Lo sto ascoltando per la prima volta oggi.

Qualcosa di Soap & Skin c'è, effettivamente.

Ma c'è una placidità emotiva (si può dire?) peculiare.

Mi piace già al primo ascolto.