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R Recensione

6/10

Jaill

That's How We Burn

Il marchio Sub Pop è una sicurezza. Una volta scartabellato il cd dalla noiosa plastica sai già di trovare un prodotto di sicura qualità, con un packaging di un certo livello (e per una volta mi si conceda di elogiare la splendida cover, che fa innamorare del disco assai più che della musica contenente) e un genere musicale tendente ad un indie melodioso a volte più prossimo ad un pop surfaro e scazzoso (Dum Dum Girls, Happy Birthday) a volte più tendente a ruvidità noise-rock più accentuate (No Age, Vaselines), con le ovvie soluzioni alternative di gran classe e più difficilmente classificabili (Wolf Parade).

I Jaill entrano a pieno titolo nella prima categoria citata: provenienti da Milwaukee (Wisconsin), Vincent Kircher, Austin Dutmer, Andrew Harris e Ryan Adams realizzano un tipico disco estivo, divertente, simpatico e dotato del giusto groove per fare da colonna sonora di feste notturne sulla spiaggia. Niente di imprescindibile e indimenticabile ovvio, ma un buon connubio di motivetti jingle-jangle (She’s my baby), continui e dinamici cambi di ritmo (Demon, Everyone’s hip), azzeccate melodie vocali tendenti ora ad una dolce malinconia (Baby I, Thank us later) ora a scattanti e secche affermazioni pop vitalistiche (That’s how we burn).

Il ritmo rimane per lo più serrato e misurato (How’s the grave) nel suo tentativo di recuperare lo spirito libertario e un po’ anarchico del garage degli anni ’60, di cui si cattura comunque tutta la leggerezza e la capacità di seduzione, come ben hanno insegnato a fare i Black Lips (nonostante l’approccio molto più “cafone” di questi ultimi). Ovviamente il sound, pur ricalcando i maestri di una volta, risente l’influenza della modernità: così la struttura wave e apatica di The stroller, così soprattutto l’approccio lo-fi che si riscontra positivamente per tutto il disco (esemplare la notevole On the beat), nonostante si abbia l’impressione che ultimamente in circolazione si abusi un po’ troppo di questa produzione sonora fintamente artigianale (insomma, non è tutto un po’ troppo costruito?).

In totale ci rimangono undici brani della durata media di tre minuti e splendidamente catchy che lasciano in bocca pochi dubbi e domande (il che non è un male ma ne costituisce ovviamente il più grosso limite). Rimane solo la certezza che tra pochi mesi ce li saremo già dimenticati nonostante ci abbiano fatto passare qualche buona mezzora senza impegno. Forse lo stesso gruppo non chiedeva niente di più…

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