Girls in Hawaii
Plan Your Escape
Molti di voi probabilmente, associano immediatamente la parola Belgio con la sigla dEUS: in fondo i due termini sono stati quasi sinonimi per gli appassionati di indie rock per gran parte degli anni '90. Altri, venuti su musicalmente in tempi più recenti, la ricollegheranno direttamente ai Soulwax, trionfatori indiscussi della stagione del bastard pop e dei bootleg sotto la sigla 2 Many Djs ed ora paladini della nuova generazione di fautori dell'unione tra “rock” ed “elettronica” (le virgolette sono d'obbligo in questo caso).
Pochi, pochissimi, penseranno invece ai Girls In Hawaii, ed è un peccato. Chi ha ascoltato From Here to There (2005) sa perchè: schegge di neo psichedelia morbida e twee, bassa fedeltà discreta che rileggeva le pagine più uggiose dei Grandaddy e dell'”Elefante 6”, stampandosi immediatamente nella testa e, soprattutto, nel cuore.
Tre anni dopo i nostri ci riprovano con Plan Your Escape: la fuga, è bene dirlo, è solo metaforica. I nostri non si spostano di un millimetro dal malinconico classicismo lo-fi che li aveva resi un nome minore di punta dell'indie pop. This Farm Will End Up in Fire, con quel titolo e quella voce è una vera e propria dichiarazione d'intenti, che ci riporta immediatamente a dove li avevamo lasciati, una manciata d'anni fa.
Le cartucce migliori devono ancora essere sparate, comunque: Sun of the Sons è sunshine pop in attesa della tempesta che dribbla e supera di misura l'80% delle produzioni di Shins e Dios, Bored drizza qualche aculeo chitarristico in più, a dissimulare la vena inguaribilmente bonacciona di un ritornello dolente e sognante, memore qua e là proprio delle pagine migliori dei dEUS.
E si prosegue così, con la ballata country pop di Shades Of Time, la desolata passeggiata in minore di Fields Of Gold e la marcia funerea di Couples on TV a tracciare un trittico strappalacrime che è spezzato giusto in tempo dalla sfuriata deragliante di Grasshopper.
Solo pochi attimi per tirare il fiato, che di lì a poco ci si ritrova di nuovo ricoperti dal velo malinconico di Colors, travolti dalla Grandaddiana Birthday Call, accolti dallo struggente (e sostenuto) strumentale Road To Luna, lambiti per pochi secondi dal carillon di Coral e poi risputati tra le braccia delle irresistibili sacche melodiche di Summer Storm.
La titletrack, asciutta e sconsolata, viene posta in chiusura a suggello di un disco che declina in minore la migliore tradizione lo-fi pop, una sorta di paradossale versione tragica del twee che ricorda, musicalmente ed emozionalmente, le pagine migliori degli struggenti Loney Dear, un calvario agrodolce a cui sarebbe davvero un peccato sottrarsi a meno di non voler rinunciare ad una delle più belle pagine scritte dall'indie belga degli ultimi anni.
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