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R Recensione

6,5/10

The Reds, Pinks and Purples

You Might Be Happy Someday

Caldo, confortante (e poco più) l’ultimo lavoro firmato The Reds, Pinks and Purples, il secondo a distanza di un anno da Anxiety art. Si tratta di un progetto nato a San Francisco con al centro Glenn Donaldson. Un album, questo You might be happy someday - il titolo è perfetto per chi cerca di rispettare il principio già ippocratico per cui, in questi giorni in scala di grigio, la malinconia si cura con la malinconia - che poco si distacca nei toni dal precedente e che, nonostante l’indubbia validità di Glenn, non riesce a staccarsi da certi canoni intramontabili dell’indie pop e dalla nostalgia del tempo che fu di band che hanno fatto da archetipo, se vogliamo, alla veste più contemporanea del genere (parlo naturalmente degli Smiths, dei Belle And Sebastian - e anche basta, però, n.d.A. - e in parte i sempreverdi e sempreamati Yo La Tengo). Insomma una scuola (soprattutto nei primi due riferimenti) che ha avuto fortunati epigoni, ma soprattutto un’infinità di imitatori di cui non sentiamo la mancanza; una scuola che, diciamolo con assoluta libertà e con assoluto rispetto, ha fatto un po’ il suo tempo. Da dire tuttavia che Glenn Donaldson, collaboratore di progetti non spiacevoli come The Art Museum e Skygreen Leopards (più orientati sullo psych), in questo progetto “solista, ma quasi”, che ha visto la collaborazione anche di alcuni amici di Glenn i cui nomi però sono nascosti come volti di bambino in un’infelice serata di Halloween, imbocca una via che se rimane (in sé) poco originale, rappresenta (per sé) una novità rispetto alla direzione più sperimentale dei passati lavori.

Ma chiarisce tutto un brano come Last summer in a rented room, con la sua irrimediabile e cupa chitarra, la sua voce sfumata, che sono un po’ il timbro classico del genere. Il punto è che accade la stessa identica cosa in Forgotten names, nell’edipica e adolescenziale Your parents were wrong about you (che melodicamente funziona anche abbastanza male), e così, cambiando di tono, in Worst side of town, che sin da quelle primissime note un po’ fine anni Zero, ha l’impressione di essere, come tutte le altre, una canzone sentita e risentita di un gruppo che abbiamo sentito molti anni fa ma di cui non ci ricordiamo il nome. Si vira su una cresta più rock in Desperate parties e nella più efficace Half-a-Shadow, che è più riuscita perché è di fatto una canzone degli Smiths. Nota per interventi strumentali singolari in Sex, lies & therapy (Glenn, un sorriso pero, te ne preghiamo), quali l’organetto, e la vivace title track, forse la più originale dal punto di vista strumentale (le percussioni) e contenutistico, essendo di fatto una nota di colore nel quieto autunno mentale messo in scena da Glenn.

Un album, You might be happy someday, che funziona per il semplice fatto che, davvero, non riesce a inventare nulla e vive di ripetizioni, nei modi e nella struttura. Sarà amato dagli eterni fan del genere e passerà inosservato da tutti gli altri. La copertina pastello ritrae un lembo di Richmond, quartiere dove Glenn vive.

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