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R Recensione

7,5/10

Damien Jurado

Brothers and Sisters of the Eternal Son

Musica da viaggio per lande desolate, americane: cime innevate, in Nevada, o distese sterminate, in Ohio, o purezza inviolata, in Alaska. L’elenco dei posti è breve, per non tediare chi legge, ma sarebbe chilometrico, se rinunciassimo alle reticenze. Damien Jurado, veterano cantastorie, scaglia in luoghi così svariati perché il suo undicesimo album sconcerta per quanto è avventuroso, ricco e indefinibile: approfondisce e sperimenta, il buon Damien, forte di una verve prolifica che si direbbe illimitata, o comunque ricaricabile, come se l’ispirazione fosse un giro di carillon, continuamente rinnovabile. Matura è poi la coerenza tutta interna, di Jurado. Che conserva la sua indole intima, onesta, pur plasmandosi in mille sfaccettature e facendo della versatilità la propria parola d’ordine.

Abilissimo narratore, Jurado prende i cocci del precedente Maraqopa (2012) e li ricompone in una ricercato legame di tematiche: Brothers and Sister of the Eternal Son è dunque la sofferente storia di un uomo che si perde cercando se stesso, e in questo smarrimento non torna più a casa, a ciò che gli era familiare. I tanti titoli con nomi in prima persona, d’altra parte, riflettono questo interesse introspettivo, radicato intensamente anche nelle molteplici citazioni bibliche, e in quel mai celato afflato spirituale, cristiano, di un cantautore sovente visionario.

Passando dal dinamismo alla rassegnazione, Jurado sforna l’ennesimo disco poliedrico. Lavoro multiforme poiché Metallic Cloud, ballata strepitosa nel suo essere perfetta in soli due accordi di chitarra e pianoforte (si avverte Sufjan Stevens), è già quasi uno spartiacque. Sarà una seconda parte più morbida e spossata, meno percussiva: sembra quasi che Jurado abbia esaurito molte delle sue energie del principio, e ora stia lì sugli argini del fiume a respirare, e contemplare ciò che ha fatto, con calma rinnovata. Così Silver Timothy, con il basso come tappeto e l’elettrica dirompente nel finale, lascia un ritornello coinvolgente e ricorsivo, e quel groove anni ’60 è la prima eredità dell’album. Quando a Jurado si rimprovera, talvolta, il timbro indolente, Return to Maraqopa risponde sprigionando un vigore vocale inatteso. 

La calma rinnovata si esprime nei coretti della voce camuffata (Jericho Road), ma Jurado non si è ancora pacato del tutto: tornano le percussioni latineggianti (Silver Donna), e ancora i falsetti che rintronano, in una coda ballabile che mescola ogni cosa, e anche il funky, forte di un basso aggressivo. Il disco sfuma pian piano, la lentezza è padrona del finale. Il commiato è fatto di tre arpeggi acustici, forse ripescati da quell’anima folk che Jurado aveva mostrato con meno parsimonia in passato (Silver Malcolm, riempita da cascate di tastiere, poi Silver Katherine, Silver Joy). 

Se non fosse un lavoro di spessore, la sua durata sarebbe troppo misera (trentacinque minuti) per quel viaggio tra le montagne del Nevada, le distese dell’Ohio, la purezza dell’Alaska. Ma Brothers and Sister of the Eternal Son non stanca mai: basta rimetterlo daccapo, e ricaricarlo come un carillon che non disturba, ma accompagna.  

 

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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Suicida (ha votato 8 questo disco) alle 15:46 del 13 marzo 2014 ha scritto:

Delicato/Incantevole <3

condor1972 alle 12:57 del 17 marzo 2014 ha scritto:

quest'album è stupendo...non ho parole!