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R Recensione

7/10

Yoav

A Foolprof Escape Plan

Già dal primo brano, “Greed”, le intenzioni di questo giovane musicista israelo-romeno sono chiare: entrare nella mente di chi lo ascolta con un linguaggio diretto apparentemente pop, ma senza rinunciare alla sperimentazione musicale, compiuta attraverso l’uso di suoni e ritmi etnici. “Moonbike” ha la forza di un brano pop che resta nella memoria grazie a un ritornello cantato con un falsetto acuto: ricorda il Thom Yorke solista, eppure a tratti sembra superarlo facendosi sostenere da un meraviglioso intreccio di ritmi tribali ed effetti elettronici. La seguente “Safety in numbers” ha una forza quasi magica: riporta a una notte illuminata da un fuoco attorno al quale viene suonata questa misteriosa melodia, ed essa aumenta coinvolgendo chiunque si trovi ad ascoltarla in una danza ebbra a metà tra un sacro rito e una festa profana.

In “Yellowbrite smile”, così come in “Little black box” e “Anonymous”, la musica abbandona quel canone acustico, senza tuttavia spezzare il ricamo etnico creato dai brani precedenti, e si lascia sostenere da una base elettronica appesantita da un uso di bassi fino ad allora quasi del tutto assente. Ma tra questi brani si interpone una splendida eccezione: “Spidersong”. È un brano trascinato via da un tempo antico, una ballata che getta l’ascoltatore in uno spazio decadente e disadorno, secco come un deserto nel quale il protagonista sembra essersi perso per un abbandono. Eppure la sua voce sembra ancora sperare, e a tratti ne appare certa, che la solitudine sta per avere finalmente fine: “I will keep you / forever, forever / in a spidersong / cause it won’t be long / no, it won’t be long”.

Easy chair” ha una splendida intensità che cresce esponenzialmente di secondo in secondo attraverso il solito ritmo serrato, stavolta sostenuto anche dagli accordi secchi di una chitarra, fino ad incontrare la voce di Yoav tremula e quasi dispersa tra le sue stesse parole, come cercasse di sfuggire a un sogno troppo fragile per non diventare un incubo. La chiusura dell’album si abbandona a un lamento (quello di “6/8 dream”) che la voce di Yoav sostiene a meraviglia, ma che tuttavia sembra cedere il carattere tribale a un romanticismo poco funzionale all’album. Anche il brano finale non ha la forza di quelli inziali, ma qui Yoav si esercita in un trascinante addio al chiaro di luna, nel quale la sua voce echeggia insieme agli arpeggi di una chitarra ricordandoci che tutti stiamo ballando, comunque vada ( “We all are dancing”).

L’approccio inziale di questo secondo lavoro di Yoav è fulminante: tradizone e tecnologia sembrano trovare un assetto perfetto, travolgente e a tratti davvero indimenticabile. L’uso di ritmi tribali coinvolge l’ascoltatore permettendogli di godere a pieno quelle ballate sparse nell’album (“Spidersong” e “Safety in numbers”) come fossero gemme preziose. Tuttavia nel finale dell’album l’intensità costruita si sgretola, scivola in un sonno che non meritava perché resta muta quell’esplosione sonora, quel grido che potrebbe essere il solo modo possibile per saziare il corpo posseduto dalla forza antica della musica evocata da Yoav.

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