Edwood
Godspeed
Lontani dalle scene da tre anni, gli Edwood, gruppo bergamasco attivo dal 2004, torna con il suo terzo lavoro “Godspeed”. E la musica non cambia: la sintesi della loro arte si trova esplicata perfettamente nel titolo dell'album precedente, “Punk music during sleep”.
Gli Edwood riprendono un genere musicale post-grunge, affiancandosi al lavoro (a dir la verità per la maggior parte dei casi terminato) di gruppi come Slowdive, God Machine e Sophia, con i quali sembrano voler condividere quell'atmosfera di delicata violenza, quella rabbia punk passata sotto il vaglio di una razionalità che sembra provenire da una consapevolezza adulta e meno istintiva, quasi una stanca ferocia che si fa sommergere da una calma mai definitiva.
In “Godspeed” la voce ha la stessa forza portentosa che Robin Sheppard lascia sospirare nelle sue creazioni a nome Sophia, quella voce unica che riesce a trasmettere la rabbia attraverso un sussurro, come a svelare il lievissimo confine tra la violenza e la dolcezza. Le chitarre hanno la stessa secchezza grunge che gli Slowdive si trascinavano dietro dagli anni '90, come a testimoniare che la scorza creata sulla pelle da quella generazione non potrà mai essere raschiata via del tutto. In più gli Edwood hanno dalla loro l'esperienza elettronica che il grunge non possedeva, quella che i Radiohead sono riuscirti a riportare magistralmente nel rock e che qui il gruppo bergamasco sfrutta per dilatare le atmosfere del disco in modo del tutto originale.
Per dimostrare le influenze degli Edwood, si potrebbero chiamare facilmente a testimoniare tutti i brani di “Godspeed”, ma due su tutti possono dare prova di ciò che abbiamo detto, “Meet someone else” e “The pianist”: nella prima la chitarra scarna s'irrigidisce su aridi accordi grunge, mentre la voce si leva come un lamento ripetitivo ossessionato dalla ricerca impossibile di un ritornello; la seconda dimostra la sua forza costruendosi sul ritmo serrato del basso, puro e chiaro come il grunge ha saputo insegnare, sotto il quale chitarre, effetti elettrici e batteria accompagnano la voce ad alternarsi con un pianoforte colpito con violenza, come a volerne estrarre a forza l'armonia.
Da ricordare è senz'altro anche “”Millions”, gioiellino di delicata malinconia, che ricorda la seducente esperienza di un mostro sacro del post-grunge, Mark Lanegan, nei suoi due album supportati dalla glaciale voce di Isobel Campbell: qui la voce femminile è quella di Sara Mazo, cantante degli Scisma, che spinge l'ascoltatore sullo sfondo di una ninnananna maledetta sussurrata da un altro tempo. Eppure, a lungo andare nell'ascolto dell'album, emerge una regolarità estranea a quello spirito grunge che, con le dovute elaborazioni, gli Edwood sembrano aver ereditato: manca quella sferzata, quel gesto sonoro che sappia rendere un brano indimenticabile nella memoria dell'ascoltatore, quel colpo di originalità che dia la cifra della personalità di un gruppo.
Manca il grido genuino del punk che qui è sommerso da un tappeto di sonorità lineari, semplici, dirette e spesso viscerali: sembra che la rabbia ribelle del punk sia uscita definitivamente dal setaccio di disillusione nel quale il grunge l'ha passata, per adagiarsi infine su una stanca rassegnazione che ha il suono di uno sterile lamento La speranza di ottenere quella sferzata non si perde mai, e questo tiene l'ascoltatore in bilico per l'intero album. Ma quando alla fine si raggiunge anche la title-track, ci si rende conto che l'attesa è stata tradita: “Godspeed” è solo la chiusura del disco, un addio nel quale la chitarra acustica si trascina attraverso gli archi fino al silenzio. E neppure la ghost-track, che arriva quando anche l'illusione si era ormai sciolta, riesce a far uscire l'album dal suo oblio, come se essa fosse un semplice scatto involontario del corpo prima di raggiungere la fase rem del sonno: punk music during sleep..
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