R Recensione

7,5/10

Lilith and the Sinnersaints

A Kind of Blues

Lilith (all’anagrafe Rita Oberti) è stata la regina italiana di un certo genere garage punk che colpì il Belpaese negli anni ’80 con i Not Moving. Il suo processo di rinascita solista arriva adesso al secondo album grazie all’essenziale supporto del suo gruppo, The Sinnersaints, e di ospiti musicisti/compositori di indiscusso spessore catturati dall’ambiente indie italiano come Luca Giovanardi (Julie’s Haircut), Ferruccio Quercetti (Cut) e Pier Adduce (Guignol).

Il risultato è questo A Kind of Blues, un album dalle tinte scure, un noir decadente e marcio che danza sui resti di qualcosa di cui sembra essere rimasto soltanto lo scheletro, già coperto di polvere: costruzioni musicali secche, essenziali, cupe, lasciano all’ascoltatore l’impressione di voler lasciare tutto lo spazio che merita alla voce di Lilith. E questa scivola magnificamente rauca tra brani italiani e inglesi, tra cover e pezzi originali, tra sorgenti di luce crepuscolari e bui completi, trascinandosi nella musica con la dignità maestosa e distruttrice di quella figura sacra che il suo nome richiama (demone femminile associato alla tempesta e alla morte).

C’è qualcosa che colpisce ascoltando brani come “Lo faccio per te” o “È qui”. Si tratta di una sensazione che non può dirsi positiva, di un’angoscia strisciante che A Kind of Blues riesce perfettamente a trasmettere: un senso di inquietudine, un vuoto, un abbandono invincibile all’oblio dal quale la voce di Lilith sembra entrare e uscire, senza illusioni e con in mano solo i cadaveri delle proprie speranze. C’è una polvere fitta in questo album, uno strato intero sul quale soffia il respiro arrochito di Lilith, ma questo non la toglie e piuttosto la spande lungo ogni nota e accordo con una precisione sadica. È esattamente la polvere che entra nella mente dell’ascoltatore mentre i Sinnersaints suonano la conclusiva “Love in vain”, una splendida cover strappata alla memoria stanca della fotografia usurata di Robert Johnson. Un brano maledetto e disperato, appesso su un filo labile tra la vita e il nulla, tra la carne e la polvere, che ricorda in qualche modo quella dolorosa rassegnazione gridata senza più fiato da Cat Power nella cover di Bob DylanMoonshiner”.

È nei brani cantati in inglese che l’ascoltatore più attento riuscirà a percepire l’origine dell’opaca decadenza che Lilith and The Sinnersaints hanno sparso in A Kind of Blues. Ad ascoltare la voce di Lilith, infatti, qualcosa arriva a sfiorare la nostra impressione nei brani cantati in italiano, qualcosa come un’associazione di idee che non si realizza fino in fondo, e che solo a partire da “Mr know it all” inizia a chiarirsi: Lilith ricorda nel suo timbro ruvido, sporco e profondamente sensuale Thalia Zedek, cantante solista ed ex moglie di Mark Lanegan. Con lui Thalia, tra le tante collaborazioni, ha partecipato al tour italiano del magnifico album Bubblegum, rendendo un bagliore splendido d’illusione nelle atmosfere soffocanti e violente dell’album. La stessa sensazione si percepisce ascoltando “Baron Samedì” (cover dei suoi stessi Not Moving), un brano che straborda sensualità e la mescola alla maledizione, con una eleganza magnificamente decadente. Ascoltando poi quella disperata ballata in lingua italiana che è “La notte” (cover di Adamo), la distinzione con l’inglese scompare, come se la polvere, la rarefazione, il movimento entropico di questo mondo, superasse qualsiasi barriera linguistica facendosi canto e musica.

I brani contenuti nell’album Bubblegum ricevevano la scossa elettrica vibrata da PJ Harvey con la sua voce rabbiosa, eppure ancora pulita, ancora incorrotta da quella raffinata decadenza che Thalia Zedek sviscerava nei live dando alle atmosfere soffocanti un bagliore splendido di speranza. L’esperienza artistica di Lilith incarna questa stessa parabola: dalla rabbia punk degli anni ’80, dal grido violento, provocatorio e mai disperato dei Not Moving, Lilith sfodera oggi una danza macabra in cui quello stesso grido si carica di una dignità rauca, sporca, eppure mai tanto rassegnata da impedire al bagliore di una stanca ed essenziale illusione di celarsi tra le sillabe soffiate dalla sua voce.

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Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Steppenwolf84 alle 19:07 del 24 ottobre 2012 ha scritto:

Ho visto un pezzo di un suo concerto ed la signora in questione ha davvero una presenza scenica d'impatto.

Voglio recuperare questo disco e sentire un esibizione per intero perché tutto quanto sembra davvero molto affascinante.